giovedì 31 maggio 2007

Cambio al vertice, il saluto di Fabbricini

di DOMENICO FABBRICINI

Dopo il passaggio di consegne al timone di Ilrestodelpallone.com, non potevo esimermi dall’esprimere il mio parere dalle colonne di questo sito che, ben presto, sarà molto diverso da come lo vedete. Il blog è, infatti, solo un passaggio temporaneo dove cominciare a sperimentare quello che realmente faremo tra qualche tempo. Innanzitutto ringrazio Carlo Tecce per quanto fatto finora, Il Resto del Pallone è e resta una sua creatura, io mi limiterò a perseguire quanto di buono fatto da lui e dai suoi collaboratori finora. La mia linea editoriale non sarà tanto diversa da quella di Carlo, lui mi definisce “per palati fini e rozzi”, e più o meno è così, nel senso che cercherò di accontentare un po’ tutti, come ho sempre fatto: i nostri collaboratori e la loro voglia di “graffiare”, e il pubblico di lettori, cercando, ove possibile, di non offendere la sensibilità di nessuno. La scelta e la raccolta dei contributi editoriali continuerà ad essere seguita, come finora, da Marco Giannatiempo.
Carlo ha parlato di inutile direzione, non è assolutamente così. Se esiste un luogo online dove poter fare vero giornalismo senza servilismi e consigli dall’alto, il merito è tutto suo; e sento già tutto il peso dell’eredità che mi ha lasciato. Fosse per me Carlo sarebbe stato un ottimo direttore anche per il nuovo corso de Il Resto del Pallone, prendo comunque atto con orgoglio della fiducia accordatami dai colleghi con la speranza di creare un buon prodotto, multimediale e interattativo, in linea con i nuovi dettami del Web 2.0. Non voglio anticipare altro per non svelare troppo prima del tempo, ma il consiglio è sempre lo stesso fin dal primo giorno in cui è nato Il Resto del Pallone: seguiteci.

martedì 29 maggio 2007

La casta

di MARCO GIANNATIEMPO

Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo spopolano e gongolano con “La casta”, un atto d’accusa ai vizi della politica. Dopo il tour tra le televisioni di mezza Italia, manco fosse un libro firmato da Bruno Vespa, il resoconto dei due giornalisti del Corriere della Sera traccia un quadro a tinte lugubri, più che fosche, della nostra classe politica. Libro recensito perfino dall’ex inquilino del Quirinale, sua maestà de La Palisse Carlo Azeglio Ciampi, che ha incanalato un dibattito molto in voga sulla crisi della politica in cui i vari D’Alema e Bertinotti s’interrogano senza trovare risposta. Per taluni i segnali per un nuovo ’92 non vanno sottovalutati. Per talatri non sembrano sussistere le condizioni per una nuova Tangentopoli.

Marco Liguori e Salvatore Napolitano spopolano al massimo sulle bancarelle con “Il pallone nel burrone”, un atto d’accusa ai vizi del mondo del calcio. Niente tour, tanta sostanza. Il libro dei due cronisti del Manifesto non ha scatenato gli interrogativi dei maggiorenti del pallone, né ha evocato i fantasmi di un passato da destinare all’oblio. Eppure, questo calcio è il fratello povero (o ricco?) della politica. Ne riflette i vizi, ne ricalca la storia. E la notevole inchiesta dei due giornalisti – quando il giornalismo esce dalle redazioni ed entra nella vita reale – al massimo incontra le recensioni dei poveri di spirito. E che sarà mai una plusvalenza falsa di Galliani o una fittizia vendita del marchio del Biscione (in entrambi i casi indaga la magistratura)? E che sarà mai il conflitto d’interessi delle banche e dei suoi capitalisti senza capitali (Bertinotti docet) con le romane? E che sarà mai il potere smisurato tra gli stand del calciomercato della Gea World? Già, nell’ultimo caso il colpevole non ti porta copie…

Quando Mario Chiesa fu arrestato a Milano, partì Mani Pulite. Quando il giornale rosa e affini pubblicarono intercettazioni telefoniche riguardanti Luciano Moggi, reo di condizionare gli arbitri (tutti assolti meno De Santis, il vertice di una cupola di vetro) mediante ammonizioni mirate – mai dimostrate da nessun colloquio telefonico, sfido chiunque a sostenere il contrario – l’inchiesta denominata Off-Side schiodò le tende dal segreto della Procura. Tangentopoli a Milano, Calciopoli a Napoli. Giornali e tv allora, giornali e tv oggi. Opinione pubblica inferocita con Craxi, opinione pubblica imbestialita con Moggi. La crisi della politica su, la crisi del calcio giù. La seconda Repubblica là, e… E qui al massimo una copia sbiadita della prima. Con le inchieste nemmeno approdate nei tribunali e gli scudetti degli onesti assegnati dai propri azionisti, la seconda Repubblica del calcio è ancora lontana. Anni luce.
Ci spiegherà un giorno il podestà di Bari, Antonio Matarrese, con quali tecniche retoriche si possono sciorinare una serie di str***, ehm…baggianate, in una sola giornata. Perfino Berlusconi, re incontrastato della gaffe e della risata popolare, s’inchinerebbe per manifesta inferiorità. Leggiamo: «Semioli presenti le prove sul finale di campionato falsato o le sue sono stupidaggini. Quello che dice è molto grave. La prova che il torneo è stato regolare sta anche nella vittoria dell'Inter, che lava la faccia del campionato. Il prossimo sarà galattico, con tutta l'Italia che conta. Juventus, Napoli e Genoa tornano finalmente in A».
Interroghiamo l’esperto di ermeneutica.
1) Le prove del finale di campionato falsato le deve presentare Semioli tanto quanto i media, i magistrati e chiunque parla a sproposito di Calciopoli deve fornirle a sostegno delle loro tesi. Dal momento che i processi, almeno in punta di diritto, non si celebrano nelle stanze dei quotidiani, la presunzione d’innocenza vale per tutti. E poi, mi passino l’azzardo, solo un menomato mentale scommetterebbe un centesimo sulla regolarità di certe partite.
2) Matarrese, lui sì, ce le ha le prove. La prova che il campionato è stato regolare, infatti, sta nella vittoria dell’Inter, sostiene il Nostro. L’avesse vinto la Roma o il Milan? È sufficiente la percezione edulcorata di Moratti e delle sue magagne nei bilanci (ripeto: parola della procura di Milano) per stabilire che il campionato è regolare se e solo se lo vince l’Inter?
3) L’anno prossimo tutta l’Italia che conta in A. Ha già visionato le cassette dell’ultima giornata dell’attuale Serie B? Con ben due settimane d’anticipo? Previdente… Eppure gli consiglino di urlare a bassa voce. L’Italia che non conta, per usare il suo linguaggio, potrebbe rivoltarsi nella tomba. La tomba che il Nostro, in ossequio alla retorica delle grandi piazze in Serie A in barba alla meritocrazia, gli ha scavato.
Scrivi a: ilrestodelpallone@gmail.com

Cambio di direttore: il saluto di Carlo Tecce


Il direttore è come il pesce: dura poco in frigo, pardon in redazione, puzza e si getta in un paio di anni. Allora, spaventato, mi son chiesto: che diavolo di pesce sono? Ho preteso lumi alla rivista «pesca a mano», ma – imbarazzati – mi hanno rimandato all’insediamento del prossimo direttore. Il prossimo, qui sulle colonne (in fase di costruzione) de Il Resto del Pallone, sarà l’amico Domenico Fabbricini. Dovendo catalogare, direi che il Fabbro fa parte del pesce buono, quello per i palati fini e quello per i rozzi.

La mia (inutile) direzione è durata un anno. Anzi, cassando la parentesi della chiusura, possiamo prolungare a tre anni (fondazione compresa).
Ho sognato il nome Resto del Pallone una notte insonne: già, perché i migliori sogni si fanno da svegli. Il pallone era a pezzi, il pallone è a pezzi. Il giornalismo era a pezzi, il giornalismo è a pezzi. Insomma: non è cambiato un tubo, ma ci siamo divertiti e abbiamo scritto tanto, tantissimo, più di mille articoli negli ultimi dodici mesi. Abbiamo svelato retroscena, abbiamo ospitato storie (Ticli, la plusvalenza interista dimenticata) e piccole esclusive. Abbiamo fatto qualcosa, potevamo fare di più. A Fabbricini e agli altri, soprattutto a Marco Giannatiempo, spetta la missione di colmare i vuoti della mia direzione. In dote, oltre agli affezionati lettori, abbiamo un seguito di grandi firme, un progetto e tanto inchiostro (ancora tanto, amici) nelle penne.

La linea sarà dettata da Domenico Fabbricini, dal prossimo numero e sino alla nuova edizione grafica, la responsabilità etica e penale saranno i suoi dolci tormenti. Piano, piano: non c’è da festeggiare. Perché continuerò, con diversa cadenza e diversa forma, a rompervi le palle. Con l’obiettivo di romperle ai potenti. A quelli che, con ostinata indifferenza, le palle ce l’hanno davvero rotte. Con affetto e una mezza lacrima,


Carlo Tecce

lunedì 28 maggio 2007

Evviva: è finita!


di CARLO TECCE


Una coppa a testa. L’Inter ha festeggiato dodici mesi di scudetti, la Roma una settimana di coppa Italia, il Milan un giorno di coppa Campioni. L’intensità può rinforzare la brevità.

Chi ha ancora la bocca asciutta, poverino, può stappare bottiglie fumanti per bagnare e spedire al macero il campionato più brutto e finto che la storia della bruttezza e della finzione abbia mai eiaculato.

La penna non si eccita. Che palle, ripetere le consuete castronerie. E’ fine anno, fine campionato, fine ultimo dei buoni propositi. La scorsa estate, bruciata dal Mondiale e da Calciopoli, le categorie calcistiche (giornalisti, dirigenti, istituzioni) avevano promesso una rivoluzione: qualcuno ha contato vinti e vincitori?

I GIORNALISTI sono (siamo) una battaglia persa. Non c’è molto da filosofeggiare: mancano le palle. Roberto Mancini è più simpatico di Josè Mourinho per due motivi: allena in Italia e non dice quel che pensa (se pensasse), a differenza del collega portoghese.
Fabio Capello era un mostro di perfezione, quando era in Italia. Fabio Capello è un mostricino d’imperfezione, quando in Spagna andava maluccio. Fabio Capello è un virtuoso della perfezione, quando in Spagna va bene e sta per tornarsene in Italia.

I DIRIGENTI sono le mense di chi sopravvive con le briciole del potere (i giornalisti). Viviamo in attesa del giorno della domanda: quando un cronista, di Sky soprattutto, abbia il coraggio di fare una domanda, quelle col punto interrogativo, ad Adriano Galliano oppure a Massimo Moratti.
Lega e Federazione, in compenso, hanno trovato un punto di equilibrio: spartizione di uomini di potere, ricatti continui e polemiche rinfocolate ad arte per paventare la solita e sempre rimandata rivoluzione.

LE SOCIETA’ E I CALCIATORI si sono macchiati della retrocessione del Chievo. Non c’è da piangere per la dipartita dalla A della squadra di Campedelli, un vassallo del vecchio regime. Anche se la boiata della favola – maledizione - è il comodo palliativo alla retorica dei giornalisti alla Cannavò. Felicitazioni per la ribellione di Mario Sconcerti: istruttiva la pratica della rivendicazione postuma. Da settimane, invero, il campionato di coda s’era trasformato in una marchetta italiana (Roma-Torino?). Ma l’illecito sportivo appartiene alla Juventus, quasi per diritto divino.

UN ABBRACCIO
a Massimo Moratti: il Resto del Pallone gli consiglia una lunga e rilassante vacanza in Polinesia, oppure nel Nirvana. Il prossimo anno sarà terribile. E le sue «uscite ineleganti» saranno uscite di un’eleganza che non c’è più. Caro MM, Moggi non c’è, la verginità sarà consumata, Ibra può avere le amicizie che vuole, la Juve sarà di ritorno. La simpatia (leggasi pena) ormai è andata.


Un anno di (brutto) calcio


di ANTONIO GURRADO


1. La sorpresa Poche chiacchiere, l’impresa di quest’anno l’ha fatta la Reggina. Partire con 15 punti di penalizzazione avrebbe steso un bue, e peggio ancora segnare tre goal alla prima partita e perderla. La bravura (conclamata) di Mazzarri è stata di essere riuscito a tenere saldo un gruppo che, per quanto privo di primi violini, ha dato risultati insperati non solo in termini di punti ma anche come efficienza: con 52 reti segnate, la Reggina ha avuto il secondo miglior attacco delle squadre finite fuori dal giro europeo, ossia dall’ottavo posto in giù. La salvezza, benché attesa fino all’ultima giornata e benché forse irraggiungibile senza lo sconto di pena (4 punti in più), è stato il premio meritatissimo per una squadra che avrebbe potuto ambire ben altri traguardi; fermo restando che forse, senza la zavorra iniziale, non avrebbe saputo trovare le energie per eccellere. Sempre restando nel campo delle escluse dall’Europa, meglio della Reggina ha fatto solo l’attacco dell’Atalanta, che è anche riuscita a rispolverare Vieri. Una funzionale organizzazione di gioco, qualche bella soddisfazione (il 2-0 sul Milan, il 2-1 sulla Roma, tanto per dire) e un ottavo posto conclusivo niente male per una squadra appena tornata in A. In generale, va notato che tutte le tre neopromosse si sono salvate, più o meno scricchiolando, il che rende l’idea dell’alto livello della Serie B dello scorso anno, e fa ben sperare per quello, ancora più alto, che si annusa per la A dell’anno prossimo.

2. La conferma 97 punti, miglior attacco, distanza siderale dalla seconda e diciassette vittorie una dietro l’altra: solo l’Inter poteva vincere il campionato. In più, ha dimostrato di saper vincere non solo le partite che avrebbe dovuto pareggiare (andata e ritorno con la Fiorentina, tanto per dire), ma anche quelle che era quasi riuscita a perdere (la Supercoppa con la Roma, se ve la ricordate ancora). In più, ha in Ibrahimovic un investimento sicuro per il futuro (se resta dov’è). In più, finalmente Mancini l’ha fatta giocare con formazione e tattiche coerenti, e sugli schermi di San Siro è andato in onda addirittura il ritorno del terzino sinistro. Di meno, invece, l’eccessivo rilassamento nella seconda parte della stagione e il sospetto che senza il terremoto estivo sarebbe arrivata ancora una volta terza - ma c’è tutto l’anno prossimo per dimostrare il contrario.

3. La domanda Il Catania s’è salvato e il Chievo è stato retrocesso; il punto sottratto al Siena per inadempienze finanziarie alla fine non s’è rivelato decisivo, salvandoci forse da un’estate di polemiche che, personalmente, mi sento di rinfocolare così: e se dopo la brutta faccenda al Catania, oltre alla squalifica del campo, fosse stato tolto qualche punticino?

4. La delusione Il Milan, senza se e senza ma. Sia chiaro che mi sto limitando a considerare il campionato, e che nella circostanza al Milan non è riuscito di fare quello che gli era sempre riuscito benissimo (distanziare l’Inter di una decina di punti in un paio di mesi) e di cui Galliani si era detto tanto sicuro quanto lo ero io, rimettendoci peraltro una birra con un amico interista. Ha sbagliato tutta la campagna acquisti estiva ed è dovuto correre ai ripari in gennaio. Ha perso tutti e due i derby, come non avveniva da 25 anni. È stato sconfitto dalla Roma, dal Palermo e dall’Atalanta (Udinese e Reggina oggettivamente non contano): una tragedia. Soprattutto, penalizzazione nonostante, è stato un grave errore focalizzare l’attenzione sul quarto posto come obiettivo massimo: una squadra del genere deve pensare a vincere comunque.

5. La follia Se l’Ascoli è stato retrocesso con una notevole dose di inevitabilità, di sfortuna e soprattutto facendo vedere cose gradevoli (Pagliuca, Eleftheropoulos, Soncin, Bjelanovic, Paolucci), almeno è riuscito a non arrivare ultimo, scavalcando in extremis il Messina che riesce nel record di venire retrocesso in serie B per due stagioni di fila. Temendo che essere richiamati all’improvviso in prima divisione e presentarsi con una squadra inadeguata non fosse sufficientemente temerario, quelli che a Tutto il Calcio Minuto per Minuto vengono chiamati i peloritani hanno provveduto a mettersi in balia dei voleri (isterici) della tifoseria, finendo per richiamare Giordano che era stato cacciato con ignominia poco prima, esonerandolo di nuovo, e facendo nelle ultime 27 giornate meno punti di quanti ne avessero fatti nelle prime 11. Alla stessa maniera, lascia perplessi il costume di richiamare l’allenatore esonerato, messo in voga dal Cagliari e dal Torino, come ad ammettere che se i presidenti (e i tifosi) avessero avuto più pazienza le squadre avrebbero concluso con meno fiatone.

6. Il goleador Questo campionato a 20 squadre non mi piace per niente e continuo ad aspettare che si torni a 16; ma, come previde qualche anno fa il sommo Adalberto Bortolotti, la (metaforica) apertura della frontiera bassa e il conseguente inabissamento del livello medio se non altro portano con sé una maggior facilità di realizzazione per gli attaccanti – non a caso, nell’ipertrofica serie A degli anni ’50, gli attaccanti erano bulimici, si pensi a Nordhal. Quest’anno abbiamo riscoperto Totti, che s’è infilato il pollice in bocca per 26 volte, indorandosi la scarpa e riscattando un Mondiale vinto senza brillare come ci sarebbe piaciuto (per non dire che evidentemente la sua scelta di rinunziare alla nazionale è giustificata dai dati di fatto, e per non dire inoltre che è prolifico non solo sul campo, visto che se continua a questo ritmo lui e sua moglie invertiranno da soli il calo demografico). Però è bello vedere che dietro di lui la classifica marcatori vede un ritorno di attaccanti abituati al fango e alle sterpaglie (Lucarelli, 20 goal; Riganò, 19 goal; Amoruso e Spinesi 17, Rocchi 16), nonché una coppia meravigliosamente viola, Toni e Mutu, che con 16 reti ciascuno ha segnato più della metà di tutti i goal della scintillante Fiorentina.

7. L’anno prossimo Indubbiamente è ancora presto per fare i maghi, ma è prevedibile che l’Inter voglia tentare una volta per tutte di vincere la Champions e magari riaprire, come nei favolosi anni ’60, un ciclo europeo di trionfi milanesi. Questo potrebbe lasciare maggior spazio in Italia: non alla Juventus, che sembra ancora in stato confusionale e farebbe bene a guardarsi sempre le spalle, e forse nemmeno al Milan, che ha bisogno di un po’ di puntelli nonostante che di notte balli sempre elegantemente; ma alla Roma e (giusto dietro) alla Fiorentina, che hanno fatto vedere il miglior calcio dell’anno, che hanno due allenatori fenomenali che iniziano a mantenere tutto ciò che promettevano e che hanno bisogno soltanto di riserve più solide per diventare grandi.


IN ESCLUSIVA PER "IL RESTO DEL PALLONE"

domenica 27 maggio 2007

Quando c'erano i brutti anatroccoli

di FIORENZO BAINI

Provate a parlare con una mamma americana agnostica in fatto di sport con un figlio normodotato e miracolosamente non obeso; domandatele che attività fisica si auguri per il figlio e vi risponderà il “soccer” perché lo possono giocare ragazzi normali, non necessariamente bestioni da football americano o giraffoni da basket . E’ sempre stato così ma oggi le cose sembrano cambiare perché, grazie alla rivoluzione vitaminica e proteica degli anni settanta/ottanta, ormai i calciatori sono diventati tutti piuttosto enormi ma, ciò che è inquietante, sono diventati pure potenziali modelli e così l’aspetto estetico, nel senso lato, prevarica sempre più sull’aspetto tecnico creando un grottesco razzismo all’interno del sport meno biologicamente razzista che ci sia. E’ avvenuta infatti la rivoluzione copernicana: dal pallone siamo passati al viso di Beckam al centro dell’universo che, per giusto contrappasso dantesco, finirà la carriera a due passi da Hollywood.

La diffidenza verso i belli del passato è diventata diffidenza verso chi è brutto oppure non è fisicamente enorme. Da Fulvio Bernardini che pronosticava una carriera senza gloria al giovane Lippi, che era comunque bravo, perché bello siamo passati a fior di allenatori che premettono, alla descrizione del nuovo acquisto, il suo essere “fisicamente fortissimo” .Se poi, per caso, si trova ad avere anche un viso piacevole, è predestinato a diventare comunque una star e finire nel giro di Lele Mora. Viceversa domandiamoci: non è che la faccia da pugile abbia pregiudicato la carriera di un degnissimo calciatore come Loria? Oppure: tra Tardelli e Vieira il fanatico del “fisicamente fortissimo” chi sceglierebbe? E prenderebbe in considerazione Altobelli, il miglior centravanti italiano degli ultimi trent’anni più di Rossi, Vieri e Toni, ma dalle inconcepibili misure di m 1,81 e miseri 64 chilogrammi?

Diciamo perciò che chi è normale e/o bruttarello è costretto ad essere un fenomeno o a diventare una sorta di leader carismatico della squadra: sono i casi di Ronaldinho e Gattuso.

Purtroppo però in questo caso si rischiano di chiudere le porte a chi è bravo ma non necessariamente fenomenale o insostituibile e si crea una deprimente uniformità somatica nelle squadre italiane ma anche degli altri paesi.

Consiglio a questo proposito un semplice esperimento: si confrontino le raccolte Panini degli anni Ottanta con quelle degli ultimi anni e vedrete nelle prime una collezione di tipi irripetibili con facce realmente umane, vere.

Prendiamo il Napoli 80/81; nella faccia terragna di Bruscolotti si vedono gli antenati pastori o contadini, si sente il sapore della terra e del duro lavoro e si capisce pure che difensore arcigno, difficilmente superabile sia stato, pari se non meglio dei difensori attuali. Nella stessa squadra come non provare simpatia per Fiore, il portiere di riserva, con la sua aria e il suo fisico da camionista dotato di baffoni?

Infatti i calciatori nello show business hanno perso la libertà di trattare liberamente anche la loro faccia perché, avendo deciso gli stilisti l’androginia e la potenziale ambiguità dei maschi, sono scomparsi i baffi e le barbe quasi del tutto. Dalle foto degli almanacchi attuali sembra che siano passati dal visagista mentre nella citata raccolta 80/81 vediamo barbe rasate, barbe mal fatte, barbe tout court, baffi pazzeschi alla Fiore, baffetti alla Zorro come Pancheri, clamorosi manubri super labiali in Gattelli sopra facce che possono appartenere a ognuno di noi, facce che ognuno di noi almeno illudevano di poter essere lì, sul prato e non solo sugli spalti.

Giunti quasi alla fine dell’album troveremo l’apoteosi del calcio “democratico”: la faccia da Bar Sport meridionale di Vito Chimenti, punta scandalosamente bassa, m 1,70, pienotto, con pancetta incipiente che sembrava passare sotto le gambe dei difensori, che provava a saltarli facendo il “sombrero” di tacco.

Vito Chimenti la faccia dell’uomo comune in serie A, la faccia di tutti noi che su un campo non vedremo più.

IN ESCLUSIVA PER "IL RESTO DEL PALLONE"

venerdì 25 maggio 2007

Lo scudetto dove lo metto

di ANTONIO GURRADO

[Sono passate più di trentasei ore ma Gurrado è ancora irreperibile; fonti attendibili lo danno impegnato a correre esultante per il centro di Oxford, vestito soltanto di un vecchio polsino rossonero. In sua sostituzione, pubblichiamo l’intervento di un ragionevole ed equilibrato corsivista nerazzurro che ha preso temporaneamente possesso della sua tastiera.]

Il Milan ha dimostrato ancora una volta i propri limiti concedendo al Liverpool di segnare a un minuto dalla fine; e solo l’arbitro Herbert Fandel, il De Santis tedesco, ha consentito di camuffarli troncando anticipatamente i minuti di recupero dopo una pronta telefonata congiunta di Leonardo Meani, Tiziano Crudeli e Bobo Maroni, abilmente celati in una cabina telefonica di Platìa Mounastiraki, nel pittoresco quartiere della Plaka. Se avesse fischiato venti secondi dopo, il Liverpool avrebbe avuto tutto il tempo di segnare due o tre volte inframezzando ogni goal con reiterati giri di campo, coreografici balletti e fuochi d’artificio, privando il Milan di una vittoria in fin dei conti immeritata e stabilendo una volta per tutte qual è la squadra più forte del mondo, cioè l’Inter.

È evidente che la Champions League è una competizione minore. Per vincerla al Milan è bastato superare il Bayern Monaco, il Manchester United e il Liverpool, mentre l’Inter ha dominato la serie A surclassando negli scontri diretti il Palermo, contenendo la grintosa risalita dell’Empoli e mettendo il sigillo definitivo sul campo del Siena. Per non dire quant’è difficile confermarsi: il Milan non arrivava in finale di Champions League da un’eternità, due anni, e non la vinceva da due eternità, ovvero quattro anni. Al contrario, l’Inter domenica prossima festeggerà il suo secondo scudetto consecutivo, aggiungendo trionfo a trionfo quando ancora sono negli occhi di tutti le spettacolari immagini del momento decisivo dello scorso anno: la riunione fra Guido Rossi, già membro del consiglio d’amministrazione dell’Inter, e Guido Rossi, al contempo ex e futuro presidente di Telecom (azionista dell’Inter e sponsor del campionato), per ottenere il via libera all’assegnazione dello scudetto da parte di Guido Rossi, commissario straordinario della Federcalcio.

Inoltre sono stato molto infastidito dalla vergognosa scena dei giocatori del Milan che, disposti su due file, sbeffeggiavano il Liverpool applaudendo coram populo gli avversari sconfitti; che significativa distanza con la corsa irrefrenabile di Julio Cruz e compagni a Valencia per complimentarsi con i vincitori, stringere loro la mano e porgere l’altra guancia! La classe, la sportività, l’eleganza non sono cose che si imparano in una notte: così alla demagogia sfrontata di Berlusconi, il quale ha parlato di “grande successo per Milano” e ha concluso addirittura con un “viva il Milan e viva l’Inter”, noi rispondiamo con l’aristocratico gesto dell’ombrello mediante il quale durante il derby Massimo Moratti ha salutato il ritorno in Italia di Ronaldo, uno dei più grandi campioni della storia, al quale l’Inter deve gli scudetti del 1998 e del 2002, che le verranno assegnati quest’esate per soprammercato. E gli allenatori, poi: come si fa a dire che Carlo Ancelotti, con due Champions League e uno scudetto (peraltro nemmeno consegnato a tavolino), abbia vinto più di Roberto Mancini il quale nel suo palmarès può vantare la Coppa Italia, e la Coppa Italia, e la Coppa Italia, eccetera?

Sarò facile profeta dicendo che poco resterà nell’immaginario collettivo dei due goal irregolari di Inzaghi (il primo segnato abbrancando il pallone con due mani, ficcandoselo sotto l’ascella e correndo nella porta del Liverpool dopo aver infilato un dito nel naso del portiere; il secondo in evidente posizione di fuorigioco, poiché al momento del passaggio di Kakà le immagini inequivocabili di Inter Channel mostrano Inzaghi che sta scavalcando la pista di atletica per precipitarsi in curva urlando “Parakalò, parakalò”), a differenza dei quattro goal con cui, due all’andata e due al ritorno, l’Inter ha dominato la Roma nella finale di Coppa Italia, non riuscendo a vincerla soltanto per il disonesto maneggio di far iniziare la partita dell’Olimpico alle 17 senza dirlo all’Inter che s’è doverosamente presentata in campo, come da accordi pregressi, alle 21. Ma la Roma ha ben poco da vantarsi, poiché nel decisivo scontro in campionato l’Inter ha regolata perdendo 1-3, che è la metà esatta di 2-6; e in generale concedendo all’unica squadra che ha ardito contenderci la vittoria in campionato di segnare solamente 13 goal in cinque partite.

Una curiosa e fortunata coincidenza vuole che il computer sul quale sto scrivendo, per via di una perversa correzione automatica, sostituisca ogni volta al nome di Inzaghi il termine indaghi: si tratta di una prefigurazione e di una profezia di quello che avverrà quest’estate, quando un pool investigativo composto da Elio Corno, Evaristo Beccalossi ed Enrico Bertolino, capitanato da Francesco Saverio Borrelli e dal Cardinal Martini, renderà pubbliche delle foto di Carlo Ancelotti che si accende di nascosto una MS pur avendo fatto voto di smettere di fumare in caso di vittoria sul Liverpool: il che porterà alla revoca della vittoria del Milan in Champions, all’obbligo di giocare tutte le partite casalinghe della prossima stagione sul campo di Novosibirsk e utilizzando una palla medica, al ritiro della laurea conseguita dal figlio di Galliani e alla sostituzione del termine “Silvio Berlusconi” col termine “Alfonso Pecoraro Scanio” in tutti gli atti della scorsa legislatura; all’estradizione di Ronaldo e all’ergastolo per Carlo Pellegatti; nonché, con prevedibile effetto domino, alla fucilazione di Alessandro Del Piero e alla cottura del suo uccellino, alla retrocessione in serie inferiore di Roma, Lazio, Fiorentina, Chelsea, Manchester United, Bayern Monaco, Sporting Lisbona, Ajax, Real Madrid, Barcellona e Sassari Torres; alla conseguente assegnazione all’Inter di tutte le edizioni finora disputate di Champions League, Coppa Uefa, Intertoto, Torneo Anglo-Italiano, Coppa Carnevale, Memorial “Adolf Hitler”, Sei Nazioni, America’s Cup, Tour de France, Ordine della Giarrettiera, Premio Nobel per la Matematica (appositamente istituito) nonché di svariate puntate, mai trasmesse, de La Prova del Cuoco.

Insomma il Milan avrà pur vinto questa settima Champions League, la quinta con Paolo Maldini e fregnacce varie, ma ci sono tutte le premesse perché l’anno prossimo al Trofeo Tim sia tutta un’altra storia; a meno che non lo vinca di nuovo la Juventus.

* scrittore.


giovedì 24 maggio 2007

Milan uguale Europa

di VANNI ZAGNOLI

Bello così, l’ho sognata così. Sì, il Milan non aveva meritato nel primo tempo, quel gol, eppure è arrivato. Per una volta può vincere senza meritare. Due anni fa aveva meritato molto di più, aveva dato spettacolo, a parte quegli 8 minuti. Con l’Olimpique Marsiglia e con l’Ajax non era stato brillante ma neppure inferiore. Va benissimo così, il Milan si è travestito da vecchia Juve italiana, ha vinto senza brillare. Settima fra Coppa dei Campioni e Champions League. Meno due dal Real Madrid, entro il 2010 potrebbe arrivare l’aggancio. Adesso viene il bello perché dalla Champions League discende tutto e di tutto. Ad agosto la Supercoppa Europea, da favorito contro il Siviglia che ha vinto solo ai rigori, a fine anno l’Intercontinentale che ora è un campionato del mondo per club.
Adesso possono arrivare altri campioni, adesso potrà giocare in Champions anche Ronaldo. Ha deciso Inzaghi con un gol dei suoi. Quel braccio non mi convince, è raccolto, è vicino al corpo però non sarebbe stato uno scandalo annullarlo. A parti rovesciate, se fosse stato convalidato un gol del genere al Liverpool, tantopiù decisivo, penso che sarei stato male per ore. Il merito però è della battuta di Pirlo. Pirlo, sì, troppo spesso ce lo dimentichiamo. Qualità e quantità.
Sono contento per Dida, che ha fatto tanti errori ma compiuto due parate importanti nel secondo tempo. Braida ha sottolineato che Buffon è il portiere più bravo del mondo, dopo stasera potrebbe lasciarlo alla Juve o all’Inter.
La bestia nera è scornata. Il Liverpool avrebbe meritato almeno i tempi supplementari, vale anche per quando vinse all’Olimpico con la Roma, 24 anni fa. Vale per tutte le volte che in Europa ha superato le italiane, per tutte le volte che le inglesi hanno battuto i nostri.
Otto finali e cinque successi in vent’anni. Il Milan di Berlusconi è la squadra più importante al mondo dall’89 a oggi. Più del Real Madrid. Più di tutte. Un anno fa l’Italia mondiale, adesso il Milan. Inzaghi, Nesta, Gattuso e Pirlo sono fra i giocatori più vincenti al mondo: due Champions League e un Mondiale. Inzaghi: doppietta in finale, 42 gol nella coppa più importante. Lui c’è, ancora protagonista a 34 anni. La Juve ha avuto la colpa di farlo andare via troppo presto, a 28. Lacrime di gioia.
zagnoliv@libero.it

mercoledì 23 maggio 2007

Il gioco dell'otto

di ANTONIO GURRADO
Avevo otto anni e al primo goal di Gullit andò via la luce. O meglio, la luce scelse di andare via un attimo prima che ci fosse il goal, fulminandoci sull’immagine di lui che, avanzato sornione verso il centro dell’area, muoveva senza sforzo apparente la gamba destra per accompagnare la palla nella porta sguarnita dello Steaua; lasciandoci incerti se il goal fosse veramente diventato un goal (ma certo che era un goal, la porta era vuota, la palla andava dritta dentro) e al contempo certissimi che con un colpettino, piano piano, a porta vuota, aveva cambiato l’inerzia della partita, del Milan, della mia esistenza e della storia tutta. (Barcellona, 24 maggio 1989: Milan 4 – Steaua Bucarest 0)
Avevo nove anni e il Benfica fu un pensiero che mi assalì d’improvviso, nel tardo pomeriggio, tornando a casa dal catechismo. Il tempo di citofonare era stato lo spartiacque fra la giornata comune (la scuola, il pranzo, la chiesa) e la giornata particolare, unica, cioè la finale; e, al contempo, il nanosecondo in attesa che mi venisse aperto il portone già mi aveva fatto capire che la finale non era unica perché era una replica dell’anno prima, e non era una replica perché ogni volta è un’emozione, anzi un terrore a sé stante, che con maggiore o minore resistenza si trascolora in vittoria. (Vienna, 23 maggio 1990: Milan 1 – Benfica 0)
Avevo dodici anni e imparai la tragedia. Nell’intervista poco prima della partita, già sul campo di Monaco, Berlusconi aveva dichiarato che era come aspettando un figlio: sono tutti importanti ma dopo il primo il nervosismo cala inevitabilmente, diventa consuetudine. Figuriamoci il terzo, pensai, tanto più che ero forte dei due esempi precedenti grazie ai quali, qualsiasi cosa accadesse, quale che fosse l’avversario definitivo che si andava a scoprire, alla fine vinceva sempre il Milan con la sua bianca maglia di riserva. Mi sedetti tranquillo e li vidi entrare in campo vestiti di rosso e nero. (Monaco di Baviera, 26 maggio 1993: Milan 0 – Olympique Marsiglia 1)
Avevo tredici anni, avevo pochi brufoli e avevo paura del Barcellona. Iniziavo a capire di calcio più di quanto lo amassi, e per guardare una partita ci mettevo più cervello che trasporto, passaggio che segna definitivamente la fine dell’infanzia, un po’ come quando si capisce che Babbo Natale non esiste e che quindi i regali provengono da Gesù Bambino. Ovviamente, nell’occasione, il cervello non era mio ma dei vari opinionisti i quali a loro volta non facevano che riportare le opinioni di Crujff, persona che non ha mai brillato per umiltà (avendone ben donde, peraltro) e che all’epoca allenava il Barça, quindi era vagamente di parte. Per la prima volta, distintamente ricordo di aver accettato a priori l’eventualità della sconfitta e di aver perfino dichiarato che tanto valeva guardare su Rai3 la diretta del voto di fiducia alla Camera al governo, tanto per restare in argomento, Berlusconi. Prima di pranzo, sul pullman che mi riportava a casa, un compagno di scuola disse: “Secondo me, se Zubizarreta non è in giornata, possiamo anche fargliene tre o quattro”; scendendo, risposi: “Ma va’”. (Atene, 18 maggio 1994, Milan 4 – Barcellona 0)
Avevo quattordici anni e fingevo di collaborare a una rete televisiva locale. Nutrendo una smodata passione per il Milan, e facendo ben poco per tenerla nascosta, un’ora prima del telegiornale delle otto (edizione di quasi cinque minuti) mi avevano dato libera uscita per prepararmi in santa pace alla visione, esprimendo parimenti un intrinseco commento sulla mia utilità in loco. Ne approfittai ben felice, con l’ottimismo dei ginnasiali, contando sul fatto che se avevamo massacrato il Barcellona potevamo ben superare l’Ajax, che per quanto siano scricchiolanti le premesse alla fine il bene (cioè il Milan) vince sempre e soprattutto che stando a fonti certe avremmo di nuovo giocato in bianco. Iniziai a festeggiare e accesi la tv. (Vienna, 24 maggio 1995, Milan 0 – Ajax 1)
Avevo ventidue anni e non ci speravo più, le finali mi sembravano un ricordo lontano, confinato all’infanzia all’adolescenza e agli anni trascorsi a Gravina. Tanto per dire, per l’università mi ero trasferito a Pavia da cinque anni e nella circostanza specifica ero a Roma da un amico, milanista anche lui; per non intristirci guardando la partita da soli, ammalati entrambi dello stesso scetticismo, avevamo raggiunto altri cinque o sei amici a casa loro. Tutti, tutti juventini. Dopo pochi minuti io e il mio amico urlammo perché avevano annullato un goal a Shevchenko. Nell’intervallo mangiammo un’ottima e abbondante insalata di riso. Subito dopo urlarono gli juventini per una traversa di Antonio Conte. Ai rigori, gentlemen’s agreement, patto fra gentiluomini: qualunque cosa fosse accaduta, ma proprio qualunque, compresi l’invasione degli ultracorpi o il diluvio universale, tutti ma proprio tutti avremmo conservato il silenzio per rispetto della sofferenza altrui, milanisti e juventini. Non una parola: e alla fine mi trovai a urlare con il mio amico, chiuso nel bagno di una casa nella quale ero entrato per l’unica volta nella mia vita. (Manchester, 29 maggio 2003, Milan 0 – Juventus 0, poi 3-2 ai rigori)
Avevo ventiquattro anni e ci avevo fatto l’abitudine. Buona parte dei miei amici modenesi l’avevo conosciuta guardando con loro le partite dei turni precedenti e alternando le presentazioni vicendevoli a salaci commenti sulla discutibile creatività di Serginho. Dovendo guardare la partita in una sala tv pubblica, mi ero garantito la prima fila sistemandovi il mio deretano un’ora prima del calcio d’inizio, e bene avevo fatto perché mi sarebbe bastato arrivare con cinquanta secondi di ritardo, poniamo, e non avrei visto il primo goal di Maldini in sette, e dico sette, finali di Coppa dei Campioni. Avrei anche potuto andarmene fra il primo e il secondo tempo, poniamo, dopo che al goal del 3-0 avevo percorso la distanza fra me e la tv strisciando sulle ginocchia come davanti a una reliquia, quando uno dei vari interisti che mi capita di conoscere mi apostrofò: “Congratulazioni, ?ormai…”; e io: “Aspettiamo i supplementari.” (Istanbul, 25 maggio 2005, Milan 3 – Liverpool 0, no, Milan 3 – Liverpool 3, poi 2-3 ai rigori)
Ho ventisei anni e sono a Oxford da due mesi. (Atene, 23 maggio 2007, Milan – Liverpool).
IN ESCLUSIVA PER IL RESTO DEL PALLONE

martedì 22 maggio 2007

Il Recoba degli anni '70

di FIORENZO BAINI

E’ bello ora, dopo lo scudetto, rievocare per un tifoso dell’Inter che abbia diciotto anni oggi, diventato interista magari quando venne acquistato Ronaldo, abituato alle faraoniche campagne acquisti di Moratti un passato della squadra identico a quello che noi abbiamo con le guerre puniche; qualcosa di remoto, astratto, forse inconcepibile. Eppure ci fu un anno in cui l’Inter acquistò un solo, di numero, giocatore a luglio, dalla Massese in C, non da una squadra di serie A . Quell’anno fu il 1974 e nessuno, dico nessuno, conosceva chi fosse mai questo Franco Cerilli. L’aver incassato la cosa mugugnando ma senza troppi problemi, forse perché non c’erano processi e inchieste mediatiche, è la spia di quanto fosse diverso il mondo. Proviamo a immaginare Moratti, ma anche Berlusconi, Cairo, Sensi o la nuova dirigenza juve che l’anno prossimo rinforzino la squadra con un giocatore di squadra equivalente, per esempio il fantasista del Qyzylqum Zarafshan che milita senza infamia e senza lode nel campionato uzbeko. Ci sarebbe la rivolta degli sponsor, un gossip sportivo assolutamente demolitorio, si penserebbero chissà quali retroscena di collassi finanziari imminenti, infine i tifosi entrerebbero in contestazione e questo indipendentemente dal valore del calciatore.

Il mondo era così diverso che questo Cerilli, quando iniziò il campionato, volevamo assolutamente vederlo però non giocava mai. L’organo ufficiale dell’Inter lo spacciava come un piccolo genio.

Piccolo non era propriamente, un normale 1,74 ma appariva ancora più minuto per le gambette corte, anche se sode e il baricentro basso. A dare l’idea del genio c’era il suo portare i calzettoni abbassati e considerando che ogni interista in quegli anni era ancora orfano di Corso, la scelta di questo look significava un chiaro collegamento al “mancino divino”.

Esordì per una manciata di minuti, come misura forse di disperazione, durante un Juve Inter, a girone d’andata ben inoltrato che l’Inter perse per uno a zero e di cui ricordo solo una mostruosa parata di Bordon su Bettega; di Cerilli assolutamente nulla e ancora una volta proviamo a immaginare un esordio assolutamente dimenticabile dell’ipotetico fantasista uzbeko ai giorni nostri; all’Inter avrebbe incrementato in maniera esponenziale le barzellette, fosse nella Roma le radio spellerebbero vivi allenatore e dirigenza.

Invece, ai tempi, il prosieguo di quel campionato fu così mediocre che, ad un certo punto, si invocava Cerilli come il demiurgo necessario e finalmente alla quinta del girone di ritorno contro la Lazio campione, Cerilli potè disputare la sua prima partita dall’inizio. Fu un’apoteosi; raramente ho visto l’Inter giocare così bene, il centrocampo sembrava un orologio svizzero, nel ricordo Adriano Fedele sembrava il Roberto Carlos degli anni migliori anzi di più, perché dava pure una mano consistente in difesa; Giorgio Mariani, per una volta, non era Giorgio Mariani ma Luis Figo, anzi di più, più mobile, più deciso nei contrasti ma soprattutto c’era Cerilli: non sprecava un pallone, ogni dribbling era azzeccato, ogni passaggio illuminante; diciamolo, anche come mancino, sembrava il mitico Mariolino. Gli mancò solo il gol ma forse perché il portiere laziale, che pure ne incassò tre, fece un partitone togliendo dalla rete almeno altre cinque reti sicure. Era nata una stella? No, perché riproposto la domenica seguente nel derby franò con tutta la squadra.

Giocando a spizzichi altre partite mostrò bei lampi di classe ma mai con la continuità dimostrata con la Lazio. Ad ogni buon conto era il tipico giocatore che il tifoso ama perché qualcosa di prezioso sapeva inventare. L’unico gol che, mi ricordi, abbia realizzato con l’Inter dice tutto di lui: fu all’Olimpico con la Roma il campionato 75/76; lancio in diagonale sul filo del fuorigioco, Cerilli addomestica la palla di petto, pallonetto sul portiere e infine la deposita di testa nella porta vuota. Ma nell’Inter pretesa stellare dell’anno seguente per lui non ci fu più posto e come Moro, dopo l’Inter, diventò la stella del Verona e dell’Ascoli, Cerilli diventò l’assist man del Vicenza dei miracoli, quello che faceva divertire la gente. A Milano è stato presto dimenticato, anche perché ormai giungeva Beccalossi, l’unico in cui i tifosi avessero riconosciuto l’erede di Corso.

Talento incompiuto nell’Inter, Cerilli è stato una specie di Recoba degli anni 70 ma, purtroppo per lui, senza un Moratti alle spalle.

IN ESCLUSIVA PER "IL RESTO DEL PALLONE"

Milan-Liverpool, in palio una cascata di denaro

Con questo articolo di Domenico Fabbricini Il Resto del Pallone inaugura una rubrica sul marketing, che con l'avvento del nuovo sito si stabilizzerà in un'apposita sezione.

di DOMENICO FABBRICINI

AC Milan e Liverpool FC si sfideranno mercoledì notte, 23 maggio, nella finale di UEFA Champions League 2007 per vincere una cascata di denaro. Fino a 100 milioni di Euro, secondo quanto emerge dalla ricerca commissionata da MasterCard. KRC Research ha messo insieme per conto di MasterCard, sponsor della UEFA Champions League, 12 tra i maggiori esperti di calcio ed economia di Inghilterra, Germania, Francia, Italia, Spagna e Croazia. Agli esperti, scelti all'interno di una serie di organizzazioni accademiche e d'affari, inclusa la Liverpool John Moore University, la State Bank of Rhineland, la University of Limoges, Capitalia, la University of Vigo e il club di calcio Dinamo Zagreb, è stato chiesto di quantificare quanto può valere in termini economici vincere la UEFA Champions League 2007. Gli esperti hanno calcolato che la squadra di calcio vincitrice ha la possibilità di beneficiare di maggiori sponsorizzazioni, rendite televisive, incassi ai cancelli e valore dei giocatori, anche se il premio stimato in 100 milioni di euro è meno di quanto molte delle più importanti squadre di calcio europee hanno speso in trasferte e compensi durante le ultime stagioni. I risultati rivelano buone notizie anche per la città di provenienza della squadra vincente. Quando il Liverpool FC vinse la finale della Champion League 2005, la città di Liverpool beneficiò di un’immissione di denaro liquido durante l'anno successivo che raggiunse i 70 milioni di Euro, attraverso l'aumento di spesa dei consumatori, il turismo, la sponsorizzazione e il commercio. Anche la città d'origine dell'FC Porto beneficiò di una spinta finanziaria dopo la sua vittoria nel 2004, stimata intorno ai 12 milioni di euro. John Stuart, Senior Vice President Sponsorship di MasterCard Worldwide, ha dichiarato: "Gli interessi in gioco sono alti per il Liverpool FC e per l'AC Milan, sia dentro che fuori dal campo. Al di là dell'enorme prestigio che deriva dal vincere un torneo così illustre, la nostra ricerca, effettuata raccogliendo i pareri di alcune delle figure più eminenti del calcio e dell'economia, rivela che i vantaggi economici che nascono dal ‘sollevare al cielo’ il trofeo della Champions League sono immensi e si ripercuotono anche sulle città di provenienza della squadra vincitrice”.La ricerca ha inoltre dimostrato che le città d’origine delle squadre vincitrici della Champions League riescono a beneficiare in maggior misura del successo della propria squadra locale se sono piccole o relativamente poco conosciute. Le città più grandi, come Milano, Barcellona o Londra, per esempio, hanno beneficiato in misura minore della vittoria del titolo da parte delle loro squadre locali.

lunedì 21 maggio 2007

Dino e Giovanni, fratelli vincenti

di MASSIMILIANO CASTELLANI

Due fratelli che vincono altrettanti campionati di serie C, nello stesso anno, non è una storia che capita di sentire tutti i giorni. La vicenda singolare è toccata in sorte a Dino e Giovanni, da calciatori: Pagliari I e II, rispettivamente tecnici del neopromosso Ravenna in serie B e del Foligno arrivato in C1. Due realtà di provincia accomunabili al di là della linea fraterna.

I giallorossi romagnoli sono ripartiti sette anni fa dal fallimento e la retrocessione d'ufficio in Eccellenza, ma ora sono tornati a rivedere la luce grazie al patron ravennate Gianni Fabbri, artefice del grande salto tra i cadetti. Storia analoga per il club umbro del giovane presidente Maurizio Zampetti che, in 5 anni, ha rianimato una realtà finita nell'oblio del dilettantismo. Una scossa estremamente positiva, la promozione in C1 dei Falchetti che arriva a dieci anni esatti dall'ultimo terremoto che ha colpito Foligno (settembre 1997). Due trionfi che portano il marchio della famiglia Pagliari. Una bella famiglia italiana, di ceppo maceratese, completamente nel pallone. E il pallone, nella casa di papà Ovidio, era entrato di prepotenza, portato dal maggiore dei suoi cinque figli. Dino appunto, classe '57, seguito a ruota da Giovanni ('61). La loro passione incontenibile ha poi contagiato Silvio ('67) che fa il procuratore di Quagliarella, bomber della Samp, e Ivo ('64) preparatore atletico che collabora nell'«Associazione Sportiva Dilettantistica Giovanni Pagliari», la scuola-calcio di famiglia (con sede a Macerata e Tolentino), dove la segreteria è affidata all'unica sorella, Manuela. E nello spirito della Scuola, forse, va ricercato il segreto di un modo originale di vedere il calcio da parte dei fratelli Pagliari. «La prima cosa che cerchiamo di far comprendere ai nostri bambini nella scuola calcio - spiega Giovanni - è la cultura della sconfitta, materia sconosciuta in Italia, soprattutto perché sono i genitori che hanno smesso di insegnarla ai propri figli». Insegnamenti preziosi, per chi sa da sempre che non si vive di solo calcio. «Nostro padre Ovidio era un direttore di banca e a me e Dino ripeteva che il calcio dovevamo prenderlo come un hobby, perché per prima cosa veniva la scuola e il diploma. Ci ha lasciati a cinquant'anni, ma i suoi precetti erano giusti e noi figli abbiamo cercato di seguirli fino in fondo». A 18 anni, Dino si diploma in ragioneria e, poi, risponderà alla chiamata della Fiorentina. Lo stesso farà Giovannino, qualche anno più tardi, con il Perugia. L'hobby a quel punto era diventato una professione. E in comune, oltre al cognome, i due fratelli si portavano dietro un marchio ingombrante che lo schivo Dino definisce quello di «giocatori pensanti». «Sia io che Dino - dice Giovanni - abbiamo sempre amato confrontarci con la gente della strada, riluttanti a tutte quelle forme di divismo che già alla metà degli anni '70 si erano innescate nel mondo del calcio. Questo atteggiamento però non era molto condiviso, ci davano dei “politicizzati”, e solo perché avevamo il coraggio di esprimere sempre le nostre idee, contrari a ogni forma di pregiudizio». Barba e capelli lunghi biondi, a Firenze fecero di Dino il più “irregolare” dei viola e il più forte nel dribblare le odiate interviste. Una sindrome che non l'abbandona anche nei giorni della festa-promozione di Ravenna: «Perché - dice - sono solo un allenatore, mica un tuttologo...». Non si sente un tuttologo neppure Giovanni, che però ha voglia di esprimere tutto il suo amore per questo sport che ha visto cambiare in maniera preoccupante. «Adesso si gioca solo per soldi. Ancora negli anni '80 era la passione la molla dominante. La prima volta che affrontai la Juventus quando mi ritrovai davanti a idoli come Zoff, Scirea e Bettega, stavo per mettermi a piangere. Era un sogno? Ai ragazzi di oggi, spesso manca proprio la capacità di sognare quando arrivano al professionismo. Rieducarli all'incanto di questo sport credo che sia il compito principale di noi allenatori e la vera sfida da vincere in futuro».

*Avvenire

IN ESCLUSIVA PER “IL RESTO DEL PALLONE”

domenica 20 maggio 2007

Torte italiane spa

di CARLO TECCE


Con la mano ancora sudaticcia e l’eccitazione ribollente, possiamo ribadirlo: il campionato italiano è il più bello del mondo. Certo: trattasi di campionato del culo. E il culo vanta la sua apprezzabile espressività. Per chi, stupido fedele, si fa prendere per il culo. Accipicchia. Linguaggio da angiporto genovese. I fondelli, nell’estremo resoconto, sarebbero troppo nobili per una descrizione pari al valore della serie A tricolore. Gli adepti del culo, ovvero i culattoni, hanno assistito insonni (?) alla penultima giornata della A.

Sonno amichevole. Quello di Torino, tra il Toro del piccolo Silvio (Cairo) e il Livorno del piccolo Zamparini (Spinelli): palleggi a centrocampo, tiracci da fuori, ingloriosa festa collettiva per un tortone da vecchi tempi.

Sonno a singhiozzo. Quello di Empoli, tra la sorpresa dell’arte dei tortoni (Cagni insegna anche in questo senso, cari adulatori) e l’adorabile Reggina: appena da Bergamo hanno decretato congiuntamente il pareggio di 1-1, un paio di gol per rimborsare i paganti, e al “Castellani” hanno regalato il punto agli amaranto.

Sonno d’amarcord (citazione felliniana). Quello di Roma, tra la Lazio dell’addio (e dell’addiaccio) di Peruzzi e il Parma del fortissimamente scorretto (tra fallimenti e Gene Gnocchi, ci sarà un modo per mandarlo in B?): senza rischiare, zero a zero dal sapore di vino torbato, il tipico accordo delle sulfuree cantine tra ingresso e spogliatoi. Senza telefonare, notate bene.

Sonno da prassi. Quello di Cagliari, tra il carrozzone di Cellino e la Roma dai facili costumi, soprattutto per chi ha bisogno di punti (e non la prima esperienza stagionale): torta perfetta, con slogan ecumenico «Vincete pure, ma fatece segnà er pupone».

Sonno da maestro. Quello di Verona, tra il Chievo e l’Ascoli: in casa di chi i panettoni li fa di professione, il tortone si cuoce a fuoco lento e senza farsi sgamare.

Sonno da incubo. Quello di Genova, la vittoria (che non serviva) della Samp sul Catania: i siciliani sono gli unici a non divertirsi col culo italiano, perché – da un paio di mesi – proprio lì… Eccetera. Eccetera. E vissero tutti felice e contenti. Con una bronzea faccia da culo.

venerdì 18 maggio 2007

Di nuovo on line

Il Resto del Pallone torna on-line dopo una settimana di pausa, e torna in una nuova versione. In attesa del restyling grafico e di contenuti che darà nuova vita al nostro settimanale, il Resto del Pallone assume le caratteristiche del blog.