mercoledì 22 agosto 2007

Mal di testa


di ANTONIO GURRADO

Domanda a bruciapelo: qual è la squadra più forte di Manchester? Risposta meditata: se consideriamo la storia, il blasone, il potere commerciale e le forze in campo, senz’altro il Manchester United; se leggiamo il risultato del derby appena giocato e la classifica del campionato inglese al giorno d’oggi, il responso parrebbe sorridere ai cugini poveri e celestini. Il Manchester City infatti ha superato lo United per 1-0 e guida bellamente (e solitariamente) la fila delle iscritte alla Premier League, con due punti di vantaggio sul Chelsea e tre sul Wigan; le sei squadre con una partita in meno sono in ritardo e, se anche vincessero il recupero, non lo raggiungerebbero in testa. Così il City, se i numeri vogliono dire qualcosa, alla fine di quest’agosto atipico che in Inghilterra non ha mai superato i venticinque gradi è indubbiamente la squadra più forte di Manchester, alla faccia di Sir Alex Ferguson.
Alla faccia non solo sua, peraltro. Il pensiero che già sabato prossimo il City sarà ospite dell’Arsenal e che ciò con ogni probabilità porrà rapida fine alla sua egemonia (non è detto, però: con le squadre allenate da Eriksson non si sa mai) non dovrebbe consolare sir Alex più di tanto, visto che perdendo il derby di Manchester lo United ha dimostrato di essere afflitto da una sorta di mal di testa che sta intaccando tutte le detentrici dei principali titoli europei, Italia compresa. I rossi campioni d’Inghilterra, ulteriormente rafforzati dal mercato, nelle prime tre giornate hanno accumulato la sconfitta nel derby e due pareggi: ora, più gravi dello 0-1 patito contro il City mi sembrano per certi versi lo 0-0 d’apertura col Reading e l’1-1 col Portsmouth tre giorni dopo, segno apparente di una squadra svagata che non ha nessuna intenzione di ripetere l’exploit dello scorso anno, e la cui abdicazione prematura suona ancora più beffarda leggendo la classifica e vedendola guidata dalla squadra della metà sbagliata di Manchester.
Mal comune mezzo gaudio, d’altra parte. Rovesci anche in Francia, precisamente su Lione, dove il carro armato che ha vinto gli ultimi sei campionati sta pagando l’atto di hybris (la tracotanza venata di stupidità, per chi è stato fortunato abbastanza da non attendere agli studi umanistici) di credersi capace di vincere tutti i campionati francesi fino alla fine dei tempi. La convinzione, corroborata da una campagna acquisti faraonica e un po’ stronza (volta a rafforzarsi indebolendo le dirette concorrenti), si è fatta certezza dopo la vittoria (2-0 sull’Auxerre) all’esordio. Doveva essere la prima di una lunga serie e invece basta là: dopo sono arrivate una sconfitta evitabile (0-1 dal Tolosa), una gara rinviata e una sconfitta preoccupante, 1-2 contro il Lorient che in questo curioso gioco delle parti s’è trovato primo in classifica. Il Lione segue a sette punti (già) di distanza.
In Germania butta male per lo Stoccarda, che lo scorso anno aveva vinto il titolo grazie alla regolarità di rendimento e a una volata entusiasmante nel finale. Se il buongiorno si vede dal mattino, buonanotte: allo spettacolare pareggio per 2-2 contro lo Schalke nella gara inaugurale della Bundesliga ha fatto seguito il tracollo contro l’Hertha Berlino (che, insomma, non è propriamente la squadra di Pelè e Sylvester Stallone in Fuga per la Vittoria). Chiuso il primo tempo in vantaggio grazie a un goal nel primo quarto d’ora, lo Stoccarda deve aver pensato di essersi messo al riparo dalla (mala)sorte comune alle consorelle detentrici: si è spenta la luce e l’Hertha ha segnato tre volte nel secondo tempo, 3-1 e tante grazie.
Corre voce che la Supercoppa, di qualsiasi nazione o continente, sia un trofeo che conta solo se si vince. Domenica scorsa però il caso ha riunito sotto un unico patema le bandiere del Real Madrid e dell’Inter. I campioni di Spagna, che dall’alto della loro sempiterna tradizione vincente hanno aggiunto il titolo dello scorso anno con notevoli affanni, hanno perso dal Siviglia 0-1 l’andata in trasferta e 3-5, nientemeno, il ritorno al Bernabeu. Questa doppia sconfitta di fatto ha vidimato il filotto di sconfitte in amichevoli (per la serie: tanto il calcio d’estate non conta) patito dalla squadra più nobile di Spagna (e d’Europa) con grande scorno di Sua Maestà Re Juan Carlos. Probabilmente Schuster pensa ancora di star allenando il Getafe, la squadra dei sobborghi: così impara quel genio del male che ha avuto l’idea di cacciare ignominiosamente Capello il vittorioso. Non così Roberto Mancini, pienamente consapevole di star allenando l’Inter, dalla quale non lo caccia nessuno (per il momento). I campioni d’Italia, dall’alto della loro non altrettanto vincente tradizione, l’anno scorso hanno dimostrato di poter carpire lo scudetto anche giocando bendati, tanta la superiorità manifesta. Allora pronti, via: e il primo trofeo della stagione, come l’ultimo dell’anno scorso, se l’è pappato la Roma con Totti a mezzo servizio.
Oddio, sono il primo a dire che queste considerazioni lasciano il tempo che trovano e che il prossimo weekend magari il Manchester United e il Lione risorgono contro Tottenham e Saint-Etienne, il Real vince (ho i miei dubbi) il derby con l’Atlético e l’Inter fa un sol boccone dell’Udinese. Sarà. Però questi temporali estivi mi hanno fatto capire il trasporto e la passione (casta) con cui Matarrese s’è baciato Totti consegnandogli la Supercoppa: perché non vince sempre il più forte, e per questo il calcio è ancora bello.

venerdì 17 agosto 2007

Serie A al via. Veggenti al lavoro.

di MARCO GIANNATIEMPO

Cari amici, agosto ci porta in dote il caldo, le zanzare, la noia, e infine il campionato col suo lascito di pronostici e propositi. Per la nuova stagione, oltre ad annunciarvi che il nuovo sito è in cantiere e vedrà la luce a torneo iniziato ma con molte novità, proponiamo la nostra graduatoria sulla Serie A alle porte. Considerazioni generali: è un campionato più borghese del precedente, ma che ne guadagni in qualità è tutto da dimostrare; il calciomercato può stravolgere i pronostici ancor prima del via; la fuga dei nostri talenti, unita alla carenza di veri e propri colpi di mercato, prefigura un impoverimento che in pochi anni potrebbe portarci ai livelli della Bundesliga (in forte crescita, tra l’altro): urgono rimedi. Passiamo all’analisi.


POLE POSITION

INTER. Due acquisti di valore (Chivu e il “simpatico calciatore” Suazo, come definito dall’ineffabile Cannavò) ad integrare il sensazionale parco calciatori che è la vera forza della squadra di Mancini. Nel calcio non si gioca in 25, ma avere 25 campioni aiuta, chiedere a Spalletti. Squadra imbattibile sui calci piazzati (là dove, nel campionato del Belpaese, si vincono tante partite), con una difesa solida, un centrocampo muscolare e al contempo di qualità, una linea d’attacco che farebbe invidia al Real Madrid delle 5 coppe dei campioni. Un suicidio collettivo pare essere l’unica speranza per le inseguitrici.
Probabile formazione (4-3-1-2): Julio Cesar; Maicon, Cordoba, Materazzi, Chivu; Vieira, Cambiasso, J. Zanetti; Stankovic (Figo); Suazo (Crespo), Ibrahimovic. All. Mancini


SECONDA FILA

MILAN. I campioni d’Europa, al solito, si adagiano sulle loro conquiste continentali e rinunciano a puntellare significativamente l’organico (in data odierna, il solo imberbe Pato popola la colonna acquisti). Con il Dida svagato dello scorso anno, una difesa che si regge soltanto sulla qualità del centrocampo (che lascia poche iniziative agli avversari) e al mai domo Nesta, l’assenza cronica di un vice-Pirlo che permetta al più forte play-maker degli anni 2000 di riposare quanto basta, e la mancanza di un centravanti da 20 gol a stagione (lo sarà Ronaldo?), i rossoneri potranno affidarsi soltanto alla verve di un Kakà senza punti deboli e ad un complesso di primattori da fare invidia anche ai cugini. Basterà?
Probabile formazione (4-3-2-1): Dida; Oddo, Nesta, Kaladze (Maldini), Jankulovski; Gattuso, Pirlo, Ambrosini; Kakà, Seedorf; Ronaldo (Gilardino). All. Ancelotti.

ROMA. Perso Chivu, preso Juan. Date le motivazioni del rumeno, il conto in banca rimpinguato e la qualità del subentrante, tutto di guadagnato. Aquilani è pronto alla consacrazione, Giuly ed Esposito vanno a colmare le lacune di una rosa ristretta che deve guardare anche in Europa. Difetti: la poca “muscolarità”, fondamentale nel nostro calcio, la necessità di un terzino sinistro e forse di un ariete che possa risolvere determinate partite (vedi i pareggi interni contro Ascoli e Chievo della scorsa stagione).
Probabile formazione (4-2-3-1): Doni; Panucci, Mexes, Juan, Tonetto; Pizarro (Aquilani), De Rossi; Giuly (Taddei), Perrotta, Mancini; Totti. All. Spalletti.

JUVENTUS. Campagna acquisti corposa (e dispendiosa), ma aver trattenuto il nucleo storico della promozione in Serie A è il merito principale della dirigenza. Ad occhio e croce, un altro difensore centrale (Heinze?) e un terzino destro potrebbero far comodo. Il centrocampo è folto e di qualità, l’attacco è stato puntellato con Iaquinta, per caratteristiche diverso dai due titolari e per questo utile. Non giocare le coppe frutterà un bottino di punti bonus. Occhio a Palladino, Nocerino e Criscito: un giovane di qualità per reparto. Quesito dell’estate: quale Juve senza Moggi?
Probabile formazione (4-4-2): Buffon; Grygera, Andrade, Criscito, Chiellini; Camoranesi, Tiago, Almiron (Nocerino), Nedved; Trezeguet, Del Piero (Iaquinta). All. Ranieri.


ZONA COPPE

LAZIO. L’eventuale qualificazione in Champions frutterà denaro e, forse, altri calciatori. La base di partenza è ottima, e Delio Rossi sa amministrare quel che ha con sagace maestria. Permangono i dubbi su un organico ristretto, leggerino (pochi colpitori di testa, soprattutto davanti), e forse inadatto ad affrontare ambedue le competizioni.
Probabile formazione (4-3-1-2): Carrizo (Ballotta); Scaloni, Siviglia, Cribari, Zauri; Mudingayi (Behrami), Ledesma, Mutarelli; Mauri (Meghni); Pandev, Rocchi. All. Rossi.

UDINESE. Un tecnico emergente e propositivo alla guida di una rosa completa e di valore: gli ingredienti perfetti per un piatto gustoso. Il trio delle meraviglie Quagliarella-Floro Flores-Di Natale ha tutto per strabiliare tifosi e commentatori. A voler essere pignoli, manca un difensore d’esperienza e un centrocampista col “physique du rôle”.
Probabile formazione (4-3-3): Chimenti (Handanovic); Mesto, Coda, Zapata, Felipe; Pinzi, Obodo, D’Agostino; Quagliarella, Floro Flores, Di Natale. All. Marino.

FIORENTINA. Pur con tutte le perplessità del caso – i tifosi viola sono i primi a nutrire dubbi sulla campagna acquisti – la fiducia preventiva al duo Corvino-Prandelli appare d’obbligo. Il nodo principale è legato alla partenza di Toni: Pazzini è pronto al salto di qualità, Vieri è in attesa della sua rinascita, ma al momento restano i punti interrogativi.
Probabile formazione (4-4-2): Frey; Ujfalusi (Vanden Borre), Dainelli, Gamberini, Pasqual (Balzaretti); Semioli, Donadel, Montolivo, Santana; Pazzini (Vieri), Mutu. All. Prandelli.

PALERMO. A scanso di equivoci: nemmeno stavolta il Palermo vincerà lo scudetto, i vendi-fumo delle tv vadano a portar sfiga altrove. Colantuono ha l’occhio lungo e un attacco con un potenziale da 35 gol, ma la difesa va puntellata e il centrocampo, perso Corini e con Bresciano in partenza, necessita di una guida.
Probabile formazione (4-4-2): Fontana (Agliardi); Zaccardo, Barzagli, Rinaudo (Biava), Pisano; Diana, Guana, Simplicio, Jankovic; Amauri, Miccoli (Cavani). All. Colantuono.


OUTSIDER

SAMPDORIA. Esagerati: per un Quagliarella perso in extremis, Garrone regala al mago Mazzarri un quartetto di punte: Bellucci, Caracciolo, Cassano, Montella. Dalla cintola in giù, tutto o quasi come prima.
Probabile formazione (3-5-2): Castellazzi; Lucchini, Sala, Accardi; Maggio (Pieri), Palombo, Volpi, Delvecchio, Reto Ziegler; Cassano, Montella (Caracciolo). All. Mazzarri.

TORINO. Organico rinnovato, e migliorato. Qualche dubbio sulla prolificità di Bjelanovic e Ventola in attesa di Di Michele, ma l’impressione è che il Toro non dovrà faticare per conquistare la salvezza.
Probabile formazione (4-4-2): Sereni; Comotto, Natali, Di Loreto, Lanna; Rosina, Corini, Barone, Grella (Lazetic); Bjelanovic, Di Michele (Ventola). All. Novellino.

CATANIA. Potrebbe essere la vera sorpresa del torneo. Acquisti mirati e rosa almeno da centro-classifica guidata da un allenatore capace. Con un centrocampista di valore in più sarebbe da zona Uefa.
Probabile formazione (4-3-1-2): Bizarri; Silvestri, Stovini, Terlizzi, Vargas; Edusei, Baiocco, Giac. Tedesco; Caserta (Babù); Mascara, Spinesi. All. Baldini.

LIVORNO. Con Lucarelli sarebbe stato tranquillamente da metà classifica. Difesa confermata, centrocampo rinnovato, e il forte dubbio che lo spagnolo Tristan possa far rimpiangere il bomber dello Shathtar. Tavano è comunque un buon colpo.
Probabile formazione (4-4-2): Amelia; Balleri, Grandoni, Galante, Pasquale; A. Filippini, Dhorasoo, Giannichedda, E. Filippini; Tristan, Tavano. All. Orsi.

EMPOLI. I miracoli non si ripetono due volte. Cagni lo sa, i suoi ragazzi lo sanno: ripetere l’annata scorsa con la storica qualificazione in Coppa Uefa sarà impossibile. Tutt’altro che impossibile, invece, la salvezza. Occhio a Giovinco: è un campioncino.
Probabile formazione (4-2-3-1): Balli; Raggi, Adani, Pratali (Marzoratti), Tosto; Marianini, Marchisio; Buscè (Giovinco), Vannucchi, Giacomazzi; Saudati.

GENOA. Dubbi su un modulo che è un’arma a doppio taglio, con una difesa peraltro da verificare che fa da contraltare ad una linea d’attacco di seconda fascia.
Probabile formazione (3-4-3): Rubinho (Pegolo); Bega (Masiello), De Rosa, Bovo; Rossi, Milanetto, Paro, Fabiano; Papa Waigo, Borriello, Di Vaio. All. Gasperini.


IN FONDO AL GRUPPO

NAPOLI. Sul giudizio pesano i tre acquisti promessi dal presidente ancora non tramutati in realtà. Nel frattempo, persi Bianchi e Giuseppe Rossi, la squadra della scorsa stagione rimpolpata con calciatori tutti da testare non sembra prefigurare sogni di gloria. Urgono un goleador, un mediano di quantità e un difensore di esperienza.
Probabile formazione (3-5-2): Iezzo; P. Cannavaro, Domizzi, Contini; Grava, Gargano, Hamsik, Dalla Bona, Bogliacino (Rullo); Calaiò (Sosa), Lavezzi. All. Reja

ATALANTA. Delneri ha costruito una squadra a sua immagine e somiglianza, ma l’impressione è che i miglioramenti significativi si siano avuti soltanto sulle fasce laterali, con Langella e Floccari.
Probabile formazione (4-4-2): Coppola; Adriano, Rivalta (Talamonti), Carrozzieri, Bellini; Ferreira Pinto (Floccari), De Ascentis, Bernardini (Tissone), Langella; Doni, Zampagna. All. Delneri.

PARMA. È la solita squadra imbottita di giovani che sembra sul punto di capitolare salvo risvegliarsi in punto di morte. La rosa è migliorabile ovunque, buoni gli acquisti mirati di Falcone, Morrone e Reginaldo.
Probabile formazione (4-4-2): Bucci; Zenoni, Falcone, Couto (Cardone), Castellini; Gasbarroni, Morrone, Cigarini (Parravicini), Dessena; Reginaldo, Budan. All. Di Carlo.

SIENA. Un solo acquisto sicuro (Lucarelli) e tante scommesse, a partire da un Mandorlini che in Serie A ancora non ha dimostrato il suo valore. Si punta sulla vecchia guardia.
Probabile formazione (4-3-1-2): Manninger; Bertotto, A. Lucarelli, Loria (Portanova), Grimi; Vergassola, Codrea, De Ceglie; Locatelli (Galloppa); Maccarone, Frick (Chiesa). All. Mandorlini.

CAGLIARI. Giampaolo è una garanzia e la politica dei giovani spesso paga, ma… Perdere il trio delle meraviglie in un colpo solo potrebbe stravolgere equilibri già consolidati. E il resto della squadra non sembra dare sufficienti garanzie.
Probabile formazione (4-4-2): Fortin; Ferri, Lopez, Bianco, Del Grosso; Foggia, Parola, Conti, Fini; Matri, Acquafresca. All. Giampaolo.

REGGINA. Finita l’era Mazzarri (e Bianchi) resta un organico pieno di falle e un allenatore che dovrà sudare per trattenere i suoi pezzi pregiati (Amoruso in testa). Salvezza possibile, ma difficile.
Probabile formazione (4-3-3): Campagnolo; Lanzaro, Valdez, Aronica, Modesto; Vigiani, Cascione, Tognozzi; Cozza, Amoruso, Joelson.

martedì 24 luglio 2007

La fuga di bomber e il fascino dello straniero


di DOMENICO FABBRICINI

Scappano i bomber dall'Italia. Il Paese campione del Mondo in carica, il Paese che, si dice, esprime il più bel calcio del mondo e che vorrebbe ingaggiare i migliori calciatori del globo, vede fuggire i suoi migliori cannonieri, attratti probabilmente (anzi, quasi certamente) dalle sirene milionarie di nazioni più attrattive, ma neanche tanto se si considera che Cristiano Lucarelli, 20 gol quest'anno con il Livorno, è andato a giocare in Ucraina (si badi, non in Spagna o in Inghiterra, ma in Ucraina), nello Shaktar Donetsk. Certo, gli 8 milioni di euro offerti per un attaccante ormai 32enne facevano gola al presidente Spinelli.

Così come facevano gola i 3 milioni a stagione offerti all'ex capitano amaranto, che l'anno scorso ha già rifiutato un ingaggio da un milione a stagione per restare a Livorno. Mercenario è stato chiamato dal più gentile dei suoi tifosi dopo la fuga in Ucraina, ma forse è solo l'emblema di un fenomeno sul quale bisognerebbe riflettere.
Lucarelli, infatti, non è l'unico bomber a lasciare l'Italia, se si considera l'approdo di Luca Toni (16 gol a Firenze) al Bayer Monaco, di Giuseppe Rossi (9 gol in un girone) al Manchester United (anche se potrebbe tornare in Italia) e di Rolando Bianchi (18 reti con la Reggina) al Manchester City. Se poi consideriamo la fuga di De Sanctis, portiere che ha rescisso il contratto con l'Udinese per scappare in Spagna al Siviglia, viene da chiedersi: cosa sta succedendo all'Italia? Da un alto il Milan cerca di convincere i vari Eto'o, Ronaldinho, Drogba a vestire la casacca rossonera, dall'altra basta voltare le spalle per vedere quelli che in Italia già c'erano scappare via. Cosa sta succedendo? E' vero che il campionato italiano è sempre più "povero" come si sente dire in giro, ma se il Milan (tanto per fare un esempio) stanzia 50 milioni per Eto'o, perché non spenderne meno della metà per un Bianchi o un Rossi che potrebbero rappresentare, molto verosimilmente, il futuro della Nazionale Italiana? Forse perché lo straniero va di moda, il tifoso vuol vedere nella sua squadra il campione forestiero che tira fuori dal cilindro numeri che gli autoctoni non sono in grado di regalargli, fa "figo" vedere nella rosa della propria squadra un bel nome brasiliano. Peccato che, a volte, la scatola chiusa che nasconde un calciatore che non ha mai calcato il manto verde italiano può tramutarsi in un vero e proprio "pacco" (vedi Ricardo Oliveira). Magari (magari!!!) il motivo è invece opposto, è il calcio italiano che va di moda all'estero e tutti vogliono assicurarsi il campione dal Belpaese. Ma se anche fosse così, resta l'interrogativo: perché questa fuga di bomber, che ricorda la ben più famosa fuga di cervelli?
In pecunia veritas.

mercoledì 18 luglio 2007

Caro Chivu, in amore vince chi fugge

di FABIO COSTANTINO

Ogni estate calcistica che si rispetti ha la sua telenovela ufficiale. In attesa che il Milan si renda conto del suo mercato imbarazzante, è quello legato a Chivu il caso più corposo dell’ultimo mese. Tanti gli attori protagonisti di questa commedia dell’assurdo: Rosella Sensi, i Becali Bros, Massimo Moratti, Joan Laporta e Ramon Calderon. Alcuni hanno svolto un ruolo da comparsa, altri sono tutt’ora sotto i riflettori, in attesa che la pellicola arrivi a una conclusione. Per molti questo è già accaduto, con il classico “tanto rumore per nulla” che costringe il difensore romeno a rimanere nella capitale fino agli ultimi respiri del suo contratto. Ma in realtà la never ending story all’italiana è ancora in pieno svolgimento, con gente che non si parla e altri che dissimulano interesse o menefreghismo ogni volta che cambia il vento. Rapido quadro della situazione. Tutto inizia prima dell’apertura delle buste per definire le comproprietà. Tra i calciatori in ballo, quel David Pizarro “ripudiato” da Mancini e amato come un figlio da Spalletti. Perché mai arrivare a uno scontro frontale tra Roma e Inter, quando ci si potrebbe accordare in altro modo? Magari lasciando il cileno a Trigoria, in cambio di una cifra modesta equiparata in 6 milioni di euro. Ma Moratti, pur avendo un cuore grande così, non è tipo da fare regali alle altre società (Milan a parte...), e probabilmente nella fattispecie si è tutelato garantendosi una prelazione sull’acquisto di Chivu, difensore eclettico che troneggia nei sogni del Mancio. Tutto semplice, no? Lui se ne vuole andare da Roma a un anno dalla scadenza del contratto, l’Inter lo accoglierebbe a braccia aperte, senza tuttavia spendere cifre da capogiro. E la società capitolina che guadagna una buona cifra dopo essersi assicurata l’imprescindibile Pizarro. In tutto questo, ecco entrare in punta di piedi i fratelli Becali, procuratori di mezza Romania e, naturalmente, del capitano della nazionale. Per loro l’accordo con Moratti è stato semplice: 5 milioni a Chivu e non se ne parli più. Una stretta di mano talmente forte da convincere i due agenti a rifiutare ogni altra proposta d’acquisto. Ma cosa c’entra questo? Se ormai è tutto definito, chi altri può interferire nel matrimonio tra Massimo (Moratti) e Cristian (Chivu), con Rosella (Sensi) testimone? Ma il gatto e la volpe spagnoli, i Laporta e Calderon che cercano un difensore di nome per Barcellona e Real Madrid. Via dunque alla fatidica asta, con la Sensi osservatrice golosa e Pradè braccio armato investito di ogni trattativa: 15 milioni dalla Catalogna, 18 dalla Castiglia. E l’Inter? Sorpresa da questo tourbillon di monete, fa un passo indietro per non partecipare ad alcuna asta. Tanto sa di avere in mano il jolly determinante: il sì di Chivu, o meglio dei Becali, che mai rinuncerebbero alla commissione su quei bellissimi 5 milioni annui. Giorno dopo giorno, agli ok della Roma seguono i rifiuti dell’entourage del calciatore, fino ad arrivare all’abbandono della pista romena da parte spagnola, virata verso altri lidi (Milito e Pepe). Stop, dunque, fine dell’asta. Rosella è furibonda, non vuole accettare l’offerta dell’Inter perché inferiore alle altre. Ma l’offerta dell’Inter, a un certo punto, sparisce in un puff, un po’ per strategia, un po’ per irritazione nei confronti di chi ha attirato altre api a un miele già dato via. Situazione? Oggi Chivu è in ritiro con la Roma, che non ne vuole sapere di trattare con Moratti, il quale non ha voglia di parlare con la capitale. I Becali, accusati di aver impedito la cessione del giocatore in Spagna, devono acconsentire all’obbligo di rispettare il contratto fino all’ultimo giorno, esponendo così il loro protetto a una contestazione pubblica. Accettata, tra l’altro, di buon grado dal nostro protagonista, prima oggetto del desiderio di mezza Europa e oggi separato in casa giallorossa. Chivu rispetterà il contratto e se ne andrà il 30 giugno dove gli offriranno di più (sarà sempre l’Inter?), ma in questi 12 mesi dovrà sorbirsi il malcontento della tifoseria, poco propensa a perdonare chi aveva già pronte le valigie verso Milano. Questo il quadro, ma finirà davvero così? Nessuna possibilità di dialogo tra Sensi e Moratti? Che fine ha fatto quell’accordo dopo la cessione di Pizarro? Forse la Roma ha giocato troppo con il fuoco cercando di guadagnare il più possibile. Un tempo il patron nerazzurro, per spirito di competizione, avrebbe accolto la sfida e l’avrebbe persino vinta. Ma quei tempi sono finiti. Oggi il buon Moratti, con Moggi fuori gioco, ha scoperto che il miglior modo per portarsi a casa i giocatori è parlargli direttamente, costringendo poi la loro società ad accettarne la volontà (vedi Suazo). È proprio vero che il mercato lo fanno i calciatori, ma una piccola quantità di etica sarebbe ben accetta. Adesso Moratti fa l’indifferente, sostiene che Chivu non gli serve, e lo ignora. Ma forse si tratta semplicemente di un’altra tattica. Dopotutto, in amore vince chi fugge....

martedì 10 luglio 2007


CAMPIONE PRECOCE

di FIORENZO BAINI

Sta svolgendosi il mondiale under 20 in Canada e naturalmente fior di osservatori, allenatori, procuratori nonché avvoltoi vari stanno sugli spalti a vedere le proposte future del convento calcistico e come al solito è stato identificato il fenomeno prossimo venturo, naturalmente brasiliano, ovvero Pato.
Siccome a ogni evento del genere ce n’è sempre uno di tali messia conviene chiedersi se le promesse sono state rispettate e in base alla risposta sapremo la validità effettiva di queste manifestazioni.
Da un punto di vista strettamente calcistico è ovvio che chi ha un qualcosa in più sia destinato a brillare in mezzo ai coetanei ma questa ovvietà naturalmente non serve a nutrire il fenomeno calcio inteso come puro spettacolo. No, occorre che il nuovo fenomeno sia considerato tale prescindendo dal contesto e venga considerato un “craque” assoluto perché solo così sono giustificabili i clamorosi esborsi che le squadre più ricche sono disposte a spendere. Occorre fare immaginare che il ragazzino possa inserirsi in una squadra nuova e mettere in riga tutti dall’alto della sua classe.
I nomi che mi vengono in mente nell’immediato passato sono Kaka, Messi e Robinho; dei tre solo il primo ha dimostrato di essere realmente un fuoriclasse perché si è inserito in un complesso preesistente e l’ha fatto vincere. Messi ha molto per essere come Kaka ma, fino ad oggi, non ha dimostrato di poter essere colui che trasforma la squadra rendendola vincente infatti io non credo che fosse stato solo tafazzismo quello di Pekerman ai mondiali di levarlo nella partita con la Germania come, d’altronde, Messi non ha certo fatto vincere il Barcellona. Su Robinho non è neanche il caso di parlare perché il Real ha vinto indipendentemente da lui.
Di conseguenza questi mondiali sono al 70% inattendibili e l’impressione è che esistano come vetrina per far spendere i club ricchi e di conseguenza per immettere in circolo di enormi quantità di denaro a favore di chi è più svantaggiato consentendo così la sopravvivenza del baraccone. Credo perciò che ogni tipo di manifestazione mondiale a livello giovanile potremmo giustificarla con finalità sociali e poco più.
Anche perché, scendendo più nel dettaglio tecnico, è bene non dimenticare che ai mondiali veri la tendenza delle squadre è quella di avere un’età media più elevata rispetto a vent’anni fa proprio nelle squadre candidate al titolo. Si noterà che, a parte le nazionali non titolate, le altre tendono a far largo ai giovani quando sono proprio deluse dalla generazione dei venticinque/trent’anni infatti la Germania, dall’età media abbastanza bassa, ha dovuto fare di necessità virtù visto il vuoto che ha seguito la generazione di Matthaus, dei Klinsmann e pure dei Kohler; l’Olanda, con risultati negativi, ha provato a svecchiare a sua volta ma, a parte gli errori di Van Basten, l’impressione è che, fortissimi a livello giovanile, siano poi veramente pochi gli olandesi in grado di creare un team vincente.
Allora, tornando al punto iniziale, un fenomeno realmente tale credo che non abbia bisogno di giocare ai mondiali giovanili e quando accade, nella gran parte dei casi lo si fa passare per tale, ma non lo è. Un fenomeno va direttamente nella nazionale maggiore, diventa titolare e da lì non si schioda più; per quanto inarrivabili credo che gli esempi di Pelè e Maradona, titolarissimi a diciannove anni, siano ancora i più validi. Nel piccolo orticello nostro e senza parlare di fenomeni vale il caso di Bergomi, mondiale a diciannove anni non ancora compiuti ma qui forse si apre un’altra parentesi; con la necessità solo nostra di far vincere sempre e comunque l’Under 21 è diventato presso che impossibile un esordio in nazionale a venti anni. Casi Bergomi o anche Cabrini temo che non se ne vedranno più.
di ANTONIO GURRADO

Per come siamo noi Italiani, più che probabile che ce ne dimentichiamo. Lunedì 9 luglio cade il primo, delirante compleanno del trionfo a Germania 2006 e va bene, questo se lo ricorda chiunque, secondo me perfino Guido Rossi. Ma per assurdo, controfattualmente, se pure l’anno scorso non avessimo vinto il Mondiale avremmo avuto qualcosa da festeggiare in questo luglio insolitamente caldo (nota extra-calcistica: quando i telegiornali si svuotano, con l’estate, ogni luglio è inusitatamente caldo, così come sotto Natale ogni inverno è inusitatamente freddo e in primavera ogni scudetto dell’Inter è inusitatamente meritato). Mercoledì 11 luglio, alzi la mano chi ha indovinato, è il venticinquesimo anniversario della vittoria di Spagna ’82.
All’epoca ero già nato ma, avendo da poco compiuto un anno e mezzo, preferivo interessarmi ad argomenti più futili; così che solo per interposta videocassetta ho conosciuto il traballante girone eliminatorio di Vigo, il seppellimento della prosopopea brasiliana nel secondo turno e l’inutile goal di Breitner in finale. Non rimpiango di essermelo perso, perché il 2006 e il 1982 occupano due versanti distinti del mio cuore calcistico: il primo saldamente ancorato agli avvenimenti spiccioli che scandivano l’attesa delle partite, e come tale momento leggendario che ha attraversato una quotidianità che lo ha reso credibile, impossibile a svanire col risveglio mattutino; il secondo, al contrario, necessariamente confinato nella testimonianza altrui o nel giornalismo d’epoca, in un flusso storico trasognato e talmente nebuloso da camuffarsi a mo’ di leggenda, benché confermato dalla reiterata esposizione (per interviste, celebrazioni varie, partitelle amarcord) dell’invecchiamento dei protagonisti d’allora.
Perché il calcio, non lo capiremo mai abbastanza, ci piace perché insegna che invecchiamo tutti e che al contempo possiamo sopravvivere al nostro invecchiamento, cristallizzati nel momento in cui, non importa se uno o venticinque anni fa, due mani italiane hanno alzato al cielo una coppa completamente uguale e dorata. Se fossi un sociologo, dedicherei questa festevole settimana di luglio allo studio comparativo delle due rose azzurre, della ristretta scelta di una ventina di compatrioti che, per un mese, non ha dovuto far altro che tirare calci in nome di una Nazione intera. Non per niente l’Italia, come volevasi dimostrare, è a forma di stivale, e sotto la Calabria sembrano esserci i tacchetti.
Non potendo giocare a trovare le differenze, come nella Settimana Enigmistica, fra ventidue coppie di Campioni del Mondo, mi limiterei alla coppia di portieri che in due secoli diversi, come la Settimana Enigmistica, può vantare innumerevoli tentativi di imitazione. Si può riuscire a rintracciare i cambiamenti di cinque lustri sui lineamenti paralleli di Dino Zoff, prima, e di Gigi Buffon, dopo? In comune hanno più cose di quante si possa intuire: sono entrambi sovrumani, come appare lampante dalla visione di qualsiasi filmato d’epoca; hanno un nome diminutivo (curioso per chi negli occhi degli attaccanti è grande quasi quanto la porta che protegge) e un cognome tronco come il rumore di una parata; giocano nella Juventus e vincono campionati a ripetizione. Cosa li distingue? Tante, infinite cose; ma nella nostra memoria, se ci pensiamo un attimo, sono percepiti come speculari. A Zoff associamo, brutalmente, la vecchiaia, col bagaglio di esperienza e silenziosa saggezza che si porta; le rughe fissate nell’espressione perpetua con la quale ha attraversato il 1982, mutandola in un sollievo tanto raro da dover essere immortalato da Guttuso. A Buffon associamo, al contrario, la gioventù, col suo esordio precocissimo in Serie A, i capelli bagnati, l’occhiolino compulsivo, la battuta spontanea (dopo la miracolosa parata su Zidane, un anno fa, gli si avvicina e gli dice: “Scusa”), la fidanzata bella e il suo continuare ad essere sempre, quando leggiamo la data di nascita sugli almanacchi o sugli album di figurine, sorprendentemente più giovane di quanto ne dica il palmarès (ha due anni più di me, che a stento riesco a tenere un pallone fra le mani).
Tanto per gradire, ci fermiamo ai numeri 1. Però pensate quante informazioni su venticinque anni d’Italia potrebbe trarre l’ipotetico sociologo dalla comparazione dei numeri 3 diversamente decisivi (in Spagna Bergomi, in Germania Grosso), dei ghignanti 5 (prima Collovati, poi Cannavaro), dei pugnaci 8 (nel 1982 Vierchowood, nel 2006 Gattuso), dei fiorentini 9 (pure con la rima: da Antognoni a Toni), dei versatili 15 (Tardelli, Iaquinta), dei nobili 17 (Causio per eleganza, Barone per cognome), e così via: similarità, contrapposizioni e segni del destino si rincorrerebbero all’infinito. Io mi limito a farne notare uno soltanto: in Germania, col numero 7, giocava il capitano della squadra più tifata d’Italia, campione di buon viso (il suo) a cattivo gioco (della malasorte), sereno, corretto, vincente, fedele, determinante e compagnia lodando: le sue giocate e le sue interviste dovrebbero diventare materia obbligatoria in tutti gli oratori d’Italia, dove spero che stiano iniziando ad allenarsi i Campioni del Mondo del 2030. In Germania, Alessandro Del Piero indossava la maglia che fu di Scirea.

martedì 3 luglio 2007

Coco e i perché


di COSIMO ARGENTINA

La domanda di fondo è sempre la stessa: perché?
Perché giochi al calcio? Perché scrivi una poesia d’amore? Perché scolpisci sotto la pioggia?
Perché?
Qual è la molla che ti spinge a soffrire, sudare, sputare sangue cercando di farcela. Perché si lotta per un risultato o per fedeltà al delirio che ci si è scelti?
Perché si gioca al calcio?
Perché so fare solo quello. Perché nella vita sono un mediocre e invece in campo divento un eroe. Perché la forza che mi viene dal manto erboso mi rende pressoché invincibile. Perché non ne posso fare a meno. Perché da bambino giocavo e calciavo contro tutto e tutti.
Ma a questo punto stringiamo l’ottica e tiriamo fuori un’altra domanda che sorge altrettanto spontanea: perché Coco gioca al calcio?
Perché Francesco Coco ha deciso di fare il calciatore?
Non ci scandalizziamo, no, riguardo alle personalità che da sempre hanno attraversato il mondo del calcio. Erik Cantona in gessato e bombetta che sfascia il volto di un tifoso avversario; Paul Gazza Gascoigne che salta gli allenamenti per andare al pub con gli amici; Albertosi in ritardo al raduno per colpa dell’ultima corsa all’ippodromo…
Ma rispetto a loro una domanda almeno aveva una risposta certa: perché giocavano? Perché erano calciatori di razza, magari con temperamenti particolari, ma giocavano perché per loro quella era la vita.
E Coco?
E per Coco?
Di Bobo Vieri si può dire questo e quest’altro ma in campo c’ha il fuoco. Vuole la porta e la cerca quasi con disperazione e ora che la vede sempre di meno la sua faccia comincia a deformarsi nel ghigno di un frustrato aggrappato a una parete di cristallo.
Ma Coco?
Perché Francesco Coco ha deciso di fare il calciatore?
Cosa lo spinge a giocare?
Cosa desidera, in realtà, questo ragazzo? Perché gioca a pallone questo ragazzo siciliano nato calcisticamente nel milanese del nord, a Legnano, dove lo ricordano soprattutto per essere un bel figliolo che per essere stato considerato per un tot di anni l’erede di Paolo Maldini?
I calciatori di una volta giocavano, giocavano, giocavano e poi aprivano una pompa di benzina. Altri finivano dietro una scrivania nella sede della società a cui erano stati fedeli per un’intera carriera.
E Coco?
Perché gioca al calcio questo ragazzo che ha militato nel Barcellona (Pozzo di Gozzo? Macché… i blaugrana!!), nel Milan, nell’Inter, nel Livorno, nel Torino, nel Lanerossi Vicenza…
Perché?
Uno volta uno scrittore mio conoscente mi ha confessato che faceva il narratore per scoparsi le ragazze. E un editor una volta mi confidò che conosceva un direttore editoriale che non capiva nulla di letteratura ma che la posizione all’interno della casa editrice gli permetteva di adescare giovani maschi alla ricerca di una pubblicazione e portarseli a letto. E un cantante mi raccontò che il suo sogno era arrivare a cantare una canzone in diretta in tv. Poi poteva anche aprire una salumeria.
E Coco?
Qual è la sua passione nuda e cruda?

martedì 26 giugno 2007

Corona e il calcio

di FIORENZO BAINI
Fabrizio Corona è tornato in libertà. D’altronde, pur essendo digiuno di cose giuridiche, non ho mai pensato che le accuse più gravi fossero credibili giacchè, quando si parla di VIP e starlette, lo sfruttamento della prostituzione credo sia utopico da dimostrare perché l’impressione è che TUTTO sia prostituzione, nel senso di facilità di costumi.
Rimane però il fatto che Corona deve essere un personaggio a moralità vicina allo zero e questo personaggio, sconosciuto ai più fino all’altro ieri, è diventato una star, sono stati creati dei fan club a suo nome. E’ diventato insomma come un attore o, discorso che mi interessa, come un calciatore.
Quali sono allora le analogie? Sia Corona che i calciatori sono ricchi ma non tutti i ricchi fanno fenomeno mediatico. Corona è un bell’uomo e i calciatori, in genere, pure ma anche qui non è sufficiente. Per fare un esempio Paolo Maldini possiede, beato lui, entrambe le caratteristiche ma la sua gloria è rimasta prettamente e giustamente calcistica.
Corona, pur essendo sposato, dà l’idea di uno sciupafemmine e si sa che tale caratteristica garantisce, a qualunque livello, un ottimo margine di consensi e anche di invidie, mai tali comunque da pregiudicare un’onorata carriera. A livello potenziale pure i calciatori lo sono. Significa che è qui il rapporto sociologico Corona/ calciatori? Non direi perché basta aver letto il primo libro di Petrini, l’autobiografia di Vendrame per vedere emergere un iceberg nelle nebbie del passato…insomma, i calciatori hanno sempre “cuccato” alla grande ma, a far la differenza, sta il fatto che i Petrini e i Vendrame non erano assimilabili fisicamente al look di Corona.
Credo allora che il punto sia questo: Corona attira perché sembra un calciatore ma, per la proprietà transitiva, i calciatori attirano perché sembrano Corona e cosa sembra Corona?
Corona, nel codino, negli orecchini, nei pendagli al collo, negli anelloni, negli occhiali scuri, tutto griffato è l’espressione più alta, oserei dire più pura, del cosiddetto “tamarro” e lo dico senza offesa, quasi con affetto. Quel look che oggi fa la differenza, una volta confinato ai piccoli boss di periferia, alle minoranze etniche degli USA, si è dato una patina trendy ed è diventato sinonimo di successo.
Guardiamo ora ai calciatori; pensiamo a Coco durante l’intervista dopo l’interrogatorio di garanzia. Cosa lo rendeva differente da Corona? Pensiamo a certi terrificanti tagli di capelli dei calciatori, pensiamo al Totti con treccine degli europei 2004, pensiamo al look dei calciatori più mondani e naturalmente viene in mente Beckam, un vertice assoluto; l’unica conclusione logica è che il successo di Corona e quello dei calciatori sia tale perché la “tamarraggine” è stato stabilito che debba tirare a livello mediatico.
E tuttavia oso dire che nel mondo del calcio questa è una forzatura, dovuta al fatto che ormai è diventato un entertainment perché mentre in Corona e nel suo mondo questo è un naturale modo di essere il calciatore, malgrado tutto, è in primo luogo un atleta catapultato in un ambito che è il contrario dello sport perciò la sua “tamarraggine” sarà sempre qualcosa di forzato, un pegno da pagare, insieme al fatto che non ci si possa più permettere di essere sciupafemmine in incognito come i mitici Petrini e Vendrame ma, anzi, si corra il rischio di essere sbattuti in prima pagina per una scappatella o di vivere, per forza, le proprie storie con donne sempre sotto i riflettori.
La contraddizione sta nel fatto che, man mano diventi tamarramente mediatico, man mano perdi qualcosa come calciatore ma è proprio quest’aspetto che ti rende appetibile dai mass media.
Temo che questa sia la sorte che attende Giardino.

lunedì 25 giugno 2007

Suazo, bomber di classe anche fuori dal campo

di FABIO COSTANTINO

Una delle vicende più squallide di questo calciomercato 2007 riguarda il trasferimento tormentato di Suazo all’Inter. Quando tutto sembrava ormai definito tra nerazzurri e Cagliari, il voltafaccia di Cellino ha improvvisamente cambiato le carte in tavola, spiazzando l’Inter e stendendo un tappeto rosso al Milan che, come un avvoltoio e senza un minimo di rispetto altrui, a messo le mani su una preda ignara di esserlo. In questo momento però sembra che la vicenda si stia per concludere come avrebbe dovuto sin dall’inizio, con l’honduregno che, rispettando la parola data a Moratti, ha deciso di dire “no” all’iniziativa del suo ormai ex presidente e del club di via Turati. In questa vicenda è stato proprio Suazo l’unico a comportarsi in maniera corretta, dando una lezione di signorilità a tutti coloro che si vantano di abbondarne. Bravo l’attaccante, al quale spetta un 10 in condotta, mentre Galliani e soprattutto Cellino non vanno oltre il 5. Moratti, dal canto suo, ha commesso il più classico degli errori, far firmare a un giocatore un contratto prima di aver messo nero su bianco con il suo club di appartenenza. La convinzione di aver limato ogni spigolo e la stretta di mano con Cellino lo facevano infatti dormire fra due guanciali. Ma la scoperta del ribaltone, oltre ad amareggiarlo, lo ha indoto a spiattellare ai quattro venti l’esistenza di una firma precedente con Suazo, che non avrebbe dovuto esistere e che ha indotto l’Ufficio Indagini ad aprire un’inchiesta. Questioni di forma che mai vengono rispettate. C’è un aspetto in particolare che mi lascia perplesso: il Milan ha rilasciato un comunicato ufficiale dove ha annunciato il ritiro dalla trattativa Suazo a causa proprio di un precedente contratto firmato dal giocatore con l'Inter. Ma la sera in cui si è messo d'accordo con Cellino e nei giorni successivi in cui questo particolare è emerso chiaramente (le parole di Moratti, l’indagine in corso), il buon Galliani non ne era a conoscenza? Mi sembra troppo facile rendersi conto di un aspetto così determinante dal punto di vista umano solo dopo che lo stesso giocatore ha rifiutato il trasferimento al Milan. Sa molto di “volpe e uva”. Quindi perchè il club rossonero non ha ammesso di essere stato snobbato nel suo comunicato ufficiale, invece di puntare il dito sul contratto precedente? E' stata davvero una brutta situazione, il peggiore nella vicenda si è rivelato Cellino, una persona inaffidabile che prima beatifica le strette di mano e poi alla prima occasione se ne dimentica facendo di testa sua e mettendo in difficoltà tutti, dall'Inter a Suazo. Solo per una motivazione personale ingiustificata e fuori luogo. E Galliani, come se niente fosse (sapevano tutti che Suazo era ormai interista per sua scelta), ne ha approfittato. Cosa c'è di più censurabile? Far firmare un contratto al giocatore prima della cessione ufficiale o cercare di portarlo via a una concorrente in modo subdolo? Ci vuole più rispetto in questo calcio dove ogni opportunità è buona per fare un dispetto alle altre società. Salvo poi ammettere di aver fallito con un comunicato ufficiale...

venerdì 22 giugno 2007

Il candido Cannavò

di MARCO GIANNATIEMPO

QUANDO Candido Cannavò succedette a Gino Palumbo come direttore responsabile della Gazzetta dello Sport, scranno occupato per 19 interminabili anni, Gianni Brera, in un insano impeto di razzismo all’italiana, alimentò il mito della razza “lumbarda” denunciando l’occupazione dei posti di potere da parte dei meridionali. Come quasi tutti i maestri, detestava il politicamente corretto, bandiva la banalità e brandiva la polemica. Da Gianni Brera, a più di quindici anni dalla sua morte, ereditiamo innumerevoli «breroidi», un patrimonio lessicale divenuto d’uso comune (Abatino, Bonimba, Rombo di Tuono, e poi centrocampista, cursore, goleador, melina, Padania, palla gol, rifinitura, e tanti altri), e l’insegnamento che il giornalismo, anche sportivo, non debba ricercare il già detto, il luogo comune, l’ovvio. Qualità in cui il Candido roseo, titolare delle colonne meno significative della stampa sportiva italiana, eccelle.

E VENIAMO al presente, 22 giugno 2007. Appena due giorni or sono, acquista un’aura di popolarità il caso plusvalenze. E arriva la notte a riprendersi la luce: di venerdì, i magheggi galliano-morattiani sono relegati in un commento ironico di Fabio Capello, nelle parole di Giancarlo Abete e, infine, nell’odierna rubrica del Candido. Tralasciando le scelte editoriali del giornale rosa, carro armato ai tempi di Calciopoli e ferraglia arrugginita dodici mesi più in là, addentriamoci nelle pieghe dell’articolo di Cannavò, intitolato «Plusvalenze: una storiaccia. Ma non facciamo confusioni».
E i dubbi affiorano imperiosi. Una storiaccia, come fosse un qualsiasi fatto di cronaca accaduto ieri l’altro. Giusto per informazione – non un pregio dei nostri fogli sportivi, per la verità – dei maquillage di bilancio se ne occupano egregiamente da anni due cronisti semi-sconosciuti, Marco Liguori e Salvatore Napolitano, che nel 2004, non proprio la scorsa mattina, denunciarono nel loro libro-inchiesta “Il pallone nel burrone” anche gli scambi di calciatori tra Inter e Milan (e Roma, Parma, e così via) quale mezzo illecito per ripianare i conti. Libro che ogni giornalista italiano che si occupi di finanza o di calcio avrebbe il dovere morale di leggere, quantomeno prima di sproloquiare. E il Nostro, così sorpreso dalle inchieste milanesi su San Moratti da Bosco Chiesanuova, pare non averlo sfogliato.

NAUSEA. La prima parola che arriva sulla punta delle dita del Candido. Nausea «per i sistemi da suk nordafricano con cui la società campione d’Italia e quella campione d’Europa hanno gestito il caso Suazo, che riguarda non il novello Maradona, ma un simpatico calciatore da sette anni in Italia». Siamo certi, da queste colonne, che il «simpatico calciatore», 94 reti in 255 partite in Serie A con la maglia del Cagliari, ricercato da mezzo mondo tra cui, appunto, la squadra campione d’Europa e quella campione d’Italia, abbia gradito il cortese aggettivo. E che, sfogliando le pagine del primo quotidiano sportivo italiano, si sia sorpreso di quanta ignoranza sull’argomento calcio regni tra coloro che regolarmente se ne occupano.

E ANCORA. «L’idea che l’Inter non potesse rispettare i parametri per l’iscrizione al campionato mi fa semplicemente ridere. Moratti avrebbe provveduto in ogni caso. Qualche esperto cervellone gli ha semplicemente evitato il fastidio di un’operazione ad hoc, uno dei tanti aumenti di capitale ai quali è abituato». Non si può non esser lieti che la notizia di reato susciti ilarità nel Nostro. A una certa età, esercitare il riso non è operazione da destinare alla bocca degli stolti. Che la colpa dei taroccamenti sia di un esperto cervellone, tuttavia, lascia perplessi. E non perché Moratti sia un individualista che fa tutto da sé, ma perché di esperti cervelloni, nelle indagini del Pm di Milano, non vi è traccia. Come lascia supporre il Nostro, il buon Massimo non è altro che una vittima di qualche malintenzionato così affezionato ai risparmi del patron che si prodiga negli artifici contabili più disparati. Per concludere il ragionamento, non lascia adito a dubbi il fatto che Moratti avrebbe provveduto in ogni caso all’aumento di capitale. Tutto il popolo nerazzurro ricorda con le lacrime agli occhi gli acquisti milionari di campioni del calibro di (tenetevi forte) Adani, Angloma, Almeyda, Batistuta, Bergkamp, Bia, Bianchi, Bindi, Blanc, Branca, Brechet, Brocchi, Camara, Caio, Carbone, Carini, Cauet, Centofanti, Choutos, Cirillo, Cinetti, Coco, Colombo, Colonnese, Mirco Conte, Corradi, Cordaz, Davids, Dell’Anno, Di Napoli, Domoraud, Fadiga, Farinos, Favalli, Ferrante, Ferrari, Ferron, Festa, Fresi, Fontana, Frezzolini, Fontolan, Galante, Gamarra, Ganz, Georgatos, Gilberto, Gresko, Guglielminpietro, Hakan Sukur, Helveg, Ince, Jugovic, Kanu, Karagounis, Robbie Keane, Kily Gonzales, Lamouchi, Luciano, Macellari, Manicone, Mazzantini, Mezzano, Milanese, Morfeo, Moriero, Mutu, Okan, Orlandini, Orlando, Orlandoni, Pacheco, Panchev, Padalino, Paganin, Panucci, Pasquale, Paulo Sousa, Pedroni, Peralta, Pistone, Rambert, Recoba, Rivas, Sartor, Seno, Serena, Sergio Conceiçao, Sforza, Shalimov, Silvestre, Simic, Sorondo, Tarantino, Tramezzani, Vampeta, Van der meyde, Ventola, Vivas, West, Winter, Wome, Zanchetta, Ze Elias, Ze Maria.
Continua il Nostro, sul passaporto falso di Recoba. «Ha pagato Recoba, ha pagato Oriali, ha sofferto – checché se ne dica – anche l’immagine dell’Inter». Ci tira su il morale, il Candido. E lascia un tarlo agli juventini, che avrebbero probabilmente sofferto volentieri se le pene fossero derubricate ad un mero “danno d’immagine”.

«DEPLORATI gli aspetti morali della vicenda… evitiamo la più disonesta delle mistificazioni: confondere il cancro di “Moggiopoli” con l’infezione delle plusvalenze. Nessuna cortina fumogena può nascondere il potere occulto che ha gestito il pallone, le designazioni arbitrali a comando, le tesserine telefoniche estere consegnate agli arbitri, gli scandali del 1998 e del 2000, i Baldas, i Ceccarini, i De Santis, gli scudetti dirottati a comando». Qui il Candido supera sé stesso, demolendo il record di – chiamiamole così – inesattezze stabilito in precedenza. Punto primo: il cancro di Moggiopoli e l’infezione delle plusvalenze. Si rammenti al Nostro che in tutti i Paesi del mondo, Italia esclusa, il falso in bilancio è un reato, sovente punibile con la detenzione. Secondo punto: il potere occulto che ha gestito il pallone. Le metastasi: le designazioni arbitrali a comando (mai dimostrate da nessuna intercettazione telefonica di cui si è a conoscenza), le tesserine telefoniche estere consegnate agli arbitri (ne riparliamo a processo concluso), gli scandali del 1998 e del 2000 (mai e dico mai sotto indagine da qualsivoglia magistratura ordinaria o sportiva di questo mondo), Baldas (il moviolista che faceva vincere le partite alla Juventus), gli scudetti dirottati al comando (s’usi il singolare: la giustizia sportiva ha preso in esame un solo campionato).
Candido Cannavò: un giornalista, un mito.

martedì 19 giugno 2007

Corsi e Ricorsi


di FIORENZO BAINI


E’ già cominciata la fase del ricordo e della rievocazione. Un anno fa di questi tempi iniziava la cavalcata che si sarebbe conclusa in modo trionfale a Berlino e tutti ricorderanno come, man mano ci appressasse alla meta finale, si ricorresse alle scaramanzie, ai corsi e ricorsi storici, dalla finale disputata ogni dodici anni alla semifinale giocata con la squadra del papa regnante e altre amenità del genere.
E’ finita bene ma quando cominciano i mondiali e quello di Germania non ha fatto eccezione, sono altre le costanti che riescono ad inquietarmi e qui le elenco perché forse potrebbero risultare utili per quando, in Sudafrica, guarderemo la palla di cristallo o consulteremo i fondi del caffè.

La prima costante è che, in linea di massima, quando l’Italia fa bene la prima partita sbaglia la seconda e viceversa. Nel 1994 mancammo clamorosamente contro l’Eire per buttare il cuore oltre l’ostacolo contro la Norvegia superandola con merito. Nel 1998 Baggio ci tenne aggrappati al pareggio contro il Cile nella prima partita per poi trovare una vittoria convincente contro il Camerun. Nel 2002 i mass media non avevano ancora cessato di celebrare la mitica vittoria contro il mediocre Ecuador che già la Croazia ci aveva steso.
In fondo nel 2006 la costante si è ripetuta; la vittoria contro il Ghana è stata inappuntabile sia nel risultato che nel gioco mentre la seguente partita contro gli USA è stata di una bruttezza rara.

Proprio questo, se ragioniamo di corsi e ricorsi, mi aveva inquietato perché, con la mente, sono andato alle Notti Magiche del 1990. L’incontro di esordio con l’Austria fu una delle più belle partite che l’Italia abbia mai disputato ad un mondiale perciò ci si aspettava tantissimo dalla seconda partita con gli USA che erano la cenerentola del girone, esattamente come in Germania.
Se è applicabile la teoria vichiana dei corsi e ricorsi storici al calcio ne consegue che contro gli Stati Uniti si giochi sempre male. La domanda è: si gioca male perché sono LORO che ti fanno giocare male o perché c’è sempre da preoccuparsi quando l’Italia azzecca la prima partita del suo mondiale?
Nel 1990 la nazionale statunitense era forse peggio di quella attuale, come al solito molto agonistica ma neanche troppo fallosa; l’Italia fece un gol bellissimo con Giannini, poi mancò un rigore con Vialli e cominciò a sottovalutare gli avversari che, comunque, erano più propositivi rispetto a quelli visti in Germania tanto che, alla fine, il migliore fu forse Zenga che parò prima una terrificante punizione e poi replicò sulla ribattuta da pochi passi.
L’anno scorso è indubbio che, anche grazie al gioco pesante, sciocchezza di De Rossi a parte, gli Stati Uniti non lasciassero giocare ma era pur vero che non ci fu un approccio corretto alla partita.
Pensando allora alla brutta partita del 90 e a questa il ricorso storico mi faceva pensare ad un mondiale ben giocato ma alla fine perduto.
Se non è finita così forse è perché, sia in positivo che in negativo, i corsi e ricorsi storici nel calcio non sono una legge scientifica bensì una pura opinione ma soprattutto perché c’è qualcosa nella testa dei calciatori italiani come nel DNA dell’intera nazione che porta a dare il meglio quando si è sull’orlo del baratro. Qui sì può intervenire la filosofia. L’Italia e la sua nazionale non hanno l’horror vacui; non si fa nulla per evitare il precipizio, magari vi si precipita pure ma, come nessun altro, ci si aggrappa alla minima sporgenza , si risale e si riemerge quando ormai si era dati per morti e sepolti.
L’Italia non è stata mai grande come nell’immediato dopoguerra, nell’orrore e nella desolazione e la nazionale italiana pure, in condizioni calcisticamente simili. Ma non basta, come scaramanticamente credono i media, che ci si appressi agli appuntamenti mondiali in situazione di scarsa credibilità. No, occorre che anche l’approccio sia sbagliato perché se no quello che è fondamentale in queste competizioni cioè partire col piede giusto è utile per tutti ma non per noi. A noi serve che la nostra squadra sia credibile e che gli avversari ci terrorizzino.

sabato 16 giugno 2007

L'interesse Nazionale


di ANTONIO GURRADO


Se mi consentite una metafora extracalcistica (ed evidentemente svincolata dall’attualità) immaginate di essere un grande partito di opposizione in uno Stato governato da un più grande partito di maggioranza che di tanto in tanto, per beghe interne alla coalizione che lo sostiene, ha bisogno dei vostri voti su questioni fondamentali. Cosa fate? Ci sono due tipi di persone: quelli che si allineano a votare insieme al partito di maggioranza, pur con tutti i distinguo del caso, in nome del più alto e comune interesse nazionale; quelli che al contrario ritengono che l’interesse nazionale sia meglio protetto facendo cadere il governo, andando a nuove elezioni, possibilmente vincendole e dando così allo Stato un nuovo governo più stabile.Entrambe queste opzioni hanno, a mio avviso, pari dignità; ma quando si tratta dell’Italia io appoggio decisamente la seconda. Ho tragicamente dimenticato di dire che la metafora extracalcistica è finita col capoverso precedente, quindi parlando dell’Italia mi riferisco alla Nazionale allenata da Donadoni. Io ho ricordi palpitanti dell’ex giocatore: ero bambino milanista quando ci dava una mano e mezza a vincere trofei su trofei; almeno una volta al mese mi guardo con immutata commozione il suo goal al Real Madrid nel 1989; l’anno dopo avrei voluto essere con altri cinquanta milioni di persone dietro di lui a soffiare per deviare il suo rigore dalle mani protese di Goycochea, per evitare l’epopea tutta italiana delle notti tragiche – e così via, quindi tirate le debite somme. Allo stesso modo stimo l’allenatore (sebbene con la tipica riluttanza a rassegnarsi all’invecchiamento, tipica di chiunque veda un giorno sedersi in panchina colui che ai tempi d’oro sgambettava in campo), concordo che abbia ottenuto risultati sorprendenti al Livorno e penso che con l’esperienza possa diventare eccellente. Con l’esperienza, però.


Mi rincresce dire che a partire dal tremebondo esordio con la Croazia più di una volta Donadoni mi ha ricordato ciò che Gianni Brera disse di Valcareggi, commentando Italia-Germania 4-3 ai Mondiali del 1970: ossia che per allenare la Nazionale bisogna guidarla con mano forte e spirito indomito, non limitarsi a osservarla terrorizzati dalla panchina. La prima volta che ho visto Donadoni spaurito, circondato da fotografi a bizzeffe, con l’aria di chi voleva scusarsi a bassa voce per star iniziando a fare il mestiere che tutti gli altri Italiani (me compreso) esercitano quotidianamente in linea teorica – be’, mi è venuta in mente l’espressione di Arrigo Sacchi quindici anni prima, dopo l’insignificante pareggio d’esordio con la Norvegia. Rileggete cosa ho scritto poco fa sulla mia infanzia milanista e immaginate quanto sforzo debba essermi costato, nel tempo, iniziare a tifare contro di lui e per estensione contro la Nazionale, soprattutto negli inguardabili progressi tattici dopo i Mondiali del 1994 (l’ultimo con Donadoni in campo, peraltro). Ogni partita della Nazionale era una preghiera acciocché con un dolore improvviso cessasse lo stillicidio di continua sofferenza: ma tempo ce ne volle, poiché a illuminare la Federcalcio non bastò un pareggio con la Slovenia, né una sconfitta con la Croazia, come nemmeno era bastata la sconfitta – e chi se la dimentica? – nell’amichevole contro il Pontedera. Bisognò perdere 2-1 con la Bosnia perché Sacchi tornasse al Milan (scombiccherandolo anziché no, ma non per questo gli voglio meno bene) e la Nazionale passasse in altre, più adatte, mani. Fu il piccolo male per un gran bene. Fu la provvida sventura. Fu il secondo modo di tutelare l’interesse nazionale.Lo stesso ho pensato di Donadoni, il Signore l’abbia in gloria. Dopo i balbettii a Napoli contro la Lituania, l’allegra giostra dei calci-in-culo a Saint-Denis contro la Francia e così via, mi sono chiesto se non fosse il caso di sospendere il sostegno al (torna la metafora) governo e fare opposizione sporca per il bene dell’Italia. Il pensiero s’è fatto strada in maniera strisciante, diventando manifesto e irreprimibile a seguito del sorriso soddisfatto con cui ho salutato il goal dei volenterosi (nonché surreali) carpentieri delle Far Oer, e lasciando che una piccola parte di me accarezzasse il sogno del pareggio. Allora mi sono reso persuaso che tanto valeva uscire allo scoperto, sperare nel pareggio (o magari nella sconfitta) mercoledì in Lituania, levarsi il dente e passare a miglior vita (miglior vita calcistica, ci mancherebbe).Solo che non avevo fatto i conti con l’evenienza che mi trovavo in Inghilterra, che l’unica maniera di sapere della partita sarebbe stata aggrapparsi alla malferma trasmissione della radiocronaca via internet, ma soprattutto che la distanza muta la prospettiva e che i battiti del cuore non seguono il ritmo delle volizioni cerebrali. Perché il problema cari miei è che, dai tempi in cui ero alto quanto il mio attuale ginocchio, quando vedo la maglia azzurra con lo stemma tricolore non capisco più niente né intendo sentir ragione: infatti il mio impegno nel tutelare l’interesse nazionale è tramontato nel momento in cui ho sentito descrivere il secondo goal di Quagliarella e mi sono trovato a ballare il trenino da solo in camera, senza accorgermi di star festeggiando (è una metafora, ripeto) perché mercoledì scorso il governo aveva retto.

martedì 12 giugno 2007

Caso Juve: Vialli (e non Deschamps) il grande sconfitto

di ENZO D'ORSI

Valeva la pena di provocare tutto questo terremoto per passare da Deschamps a Ranieri? L'allenatore era un falso problema: lo è diventato quando il francese ha scoperto la trame ai suoi danni e da quel momento ha cominciato a lanciare messaggi. Lo scudetto subito era e resta un'utopia: averlo ammesso è costato a Deschamps gli insulti della parte più debole della critica torinese, quella già celebre per non aver capito la grandezza di Zidane e tante altre valutazioni stravaganti, figlie di un'epoca di transizione come la nostra. Ranieri, che è una persona seria ed un tecnico di valore, ha ripetuto con parole diverse le stesse opinioni di Deschamps, rifugiandosi dietro un piano quinquennale e sottolineando il valore dello stile da riconquistare, non solo delle vittorie. Insomma, la Juve non può pretendere di tornare ad essere subito la prima in assoluto: se si fosse espresso così Deschamps, da quali contumelie sarebbe stato investito?
L'addio del capitano della Francia campione del mondo e d'Europa, l'avvento di Ranieri come conseguenza del gran rifiuto di Lippi hanno anche portato alla ribalta una verità indiscutibile: la vittima più illustre dell'ultimo mese bianconero non è Deschamps, ma Vialli. Sì, Vialli, l’uomo che sogna la panchina della Juve dal giorno in cui, dopo il trionfo europeo di Roma, ha salutato Torino. Inattivo dal 2002, dal fallimento della mission Watford (fu assunto in sceonda divisione, avrebbe dovuto condurlo in Premier league, rischiò la retrocessione prima di essere sollevato dall'incarico), Vialli vanta l’ingaggio più alto tra gli opinionisti-testimonial di Sky, più della D'Amico e degli altri in virtù dell'amicizia che lo lega a Murdoch. Un milione e 200mila euro l'anno (più di Ranieri alla Juve!) per due partecipazioni ogni 15 giorni, e solo in occasione della Champions, niente seconda voce, tutti i week end liberi. Un trattamento principesco. Ogni tanto alla solita voce amica del quotidiano prediletto (che in inverno strillò in prima pagina: "Lippi-Vialli insieme al Chelsea") ripete la stessa musica: "Tornerei in panchina solo per Juve e Chelsea". In realtà, s’era fatto proporre alla Sampdoria da qualche vecchio amico genovese. Ma la Samp ha scelto Mazzarri: meno trendy di uno che risiede a Londra, ma più concreto. E la Juve? Bocciato. Povero Vialli: aveva scomodato amici influenti, dalla famiglia Grande Stevens in giù, ma i dirigenti hanno resistito. Niente avventure, meglio Ranieri, sospinto dalla forza di una salvezza strepitosamente conquistata con il Parma. Per Vialli, la Juve resterà un sogno, visto che prima o poi Lippi sarà libero. Questa era la sua occasione. Non è stato abbastanza convincente, cinque stagioni senza panchina devono aver avuto il loro peso, così come le voci che lo circondano. Vialli si consolerà con Sky, mentre gli allenatori normali continueranno a lavorare bene anche in piazze che non siano Londra e Torino. Di Vialli, non mancherà un'altra intervista, di cui fin da ora possiamo anticipare il titolo: "Tornerei in panchina solo per Juve e Chelsea".

sabato 9 giugno 2007

Riceviamo e pubblichiamo

Queste colonne, è stato così fin dalla creazione de Il resto del Pallone, sono qui appositamente per ospitare pareri, punti di vista, giudizi, di chiunque voglia commentare il calcio a modo suo, senza bavagli o imposizioni, ma pur sempre nel rispetto della dignità umana e della presunzione di innocenza. Mai, l’ho scritto anche nell’editoriale di benvenuto, accetteremo pezzi offensivi o infamanti, mentre saremo ben felici di offrire un’informazione e un commento che di discosti dagli interessi dei grossi editori. Fatta questa dovuta e opportuna premessa, ho accolto con favore la lettera di una collega, Monica Morandi, che si è vista censurare un pezzo in cui dava la propria interpretazione della Champions League vinta dal Milan e degli elogi che ne sono seguiti, semplicemente esprimendo il proprio parere, parlando di “vittoria” tra virgolette. Un pezzo che, lascio giudicare, non mi è parso né offensivo né passibile di querela, scomodo forse, ma che senza dubbio non offende nessuno. Ecco perché mi sono offerto di ospitarlo, riportarlo tutto è stato impossibile per motivi tecnici, ma ho riassunto i passi più importanti e significativi del libero sfogo di Monica.

Domenico Fabbricini

Nel calcio vince chi la mette dentro, non importa se di piede, di braccio pieno o di mano. Con buona pace dei nostri mass media, che in stile “Tele Kabul” si sono persi le immagini che lo dimostrano (nonostante fossero state previste telecamere aggiuntive per le riprese personalizzate), il primo goal di Inzaghi nella finale di Champions League contro il Liverpool è quasi di mano e in spinta volontaria, come si è visto alla moviola della TV tedesca DSF e come mostra chiaramente il fotogramma pubblicato dal quotidiano inglese “The Sun”: il pallone rotola sull’avambraccio di Superpippo, giungendo quasi a toccarne la mano. (…)

Di diverso parere Gianni Cerqueti e Beppe Dossena in telecronaca su Rai 1. Commento al primo goal di Inzaghi: “Con un po’ di fortuna, ma la sostanza è quella che conta”. Aggiungerà più tardi Dossena che questa coppa “è un altro buon motivo per sentirsi italiano” e che “queste imprese sono riservate solo ai grandi uomini”. Eloquente, per contro, il titolo del “Sun” di giovedì: “Rapina a mano armata”. (…)

“Siamo uomini veri”, dichiara Pippo sulla Gazzetta, che gli regala un 9 in pagella. Credo che un “uomo vero” sarebbe andato dall’arbitro e avrebbe ammesso l’irregolarità del goal. Al contrario, a “Mercoledì da Campioni” (Rai 1), “Pippo-manolesta” ci fa passare tutti per fessi, affermando che il pallone gli sarebbe rimbalzato sulla testa (!!!). Ancelotti sulla Gazzetta con involontaria autoironia: “Questo trionfo era nel nostro destino”; “nei suoi goal (di Inzaghi, ndr) c’è sempre qualcosa di speciale”. (…)

Si sa: “ogni scarrafone è bello a mamma suia”. Ma la nostra carta stampata è a senso unico. La Gazzetta dello Sport titola “E vai!!!!!!!” con 7 punti esclamativi numerati a significare le 7 coppe rossonere, dedicando 15 pagine alla finale e parlando di “Eurodelirio con Inzaghi”. (…) Candido Cannavò, in “fatemi capire” si produce in una lettera aperta al tecnico del Liverpool Rafael Benitez rivendicante il presunto “furto” del 2005: “Caro Rafa Benitez… Guardi il suo mondo capovolto” … “è il settimo trionfo del Milan e tutti ne siamo orgogliosi”… “ringrazi il cielo. Il Milan le ha regalato due anni di bella vita e adesso Ancelotti e i suoi ragazzi si riprendono tutto ciò che gli spettava”…”Il risultato di ieri sera, caro Rafa, è un atto di riparazione, anche se lei non l’ammetterà mai, perché un allenatore s’innamora della sua squadra come di una donna avvincente e, finché la passione dura, non vede altro all’orizzonte”.

“Campionissimi” è il titolo del Corriere dello Sport. L’editoriale di Alessandro Vocalelli, intitolato “Fuoriclasse della vittoria”, parla di “Milan straordinario”, il pezzo dell’inviato ad Atene Luigi Ferrajolo di “capolavoro”. Altro che mondo capovolto!

“Gran Milan”, troneggia sulla prima pagina di Tuttosport, dove si legge: “Questo successo è un atto di giustizia”. Perlomeno, l’editoriale di Giancarlo Padovan ammette una “deviazione rapinosa e fortuita sulla punizione di Pirlo”. Un plauso a Padovan, che ha il coraggio di ribadire: “ Peccato che, come ho ripetuto (e ripeterò) all’infinito, i rossoneri alla Champions non dovessero – né potessero – essere ammessi e che, invece, vi siano approdati grazie ad una compiacente sentenza all’italiana”. E poi ci meravigliamo della nostra fama all’estero.

Tuttosport va in orbita assegnando voti stratosferici ai giocatori del Milan “nell’entusiasmante cavalcata europea”: 10 a Kakà e Ancelotti, 9,5 a Seedorf, 9 a Gattuso, Maldini, Pirlo e Inzaghi. No comment. Dopo la partita, perde la bussola anche il webmaster del Sito Ufficiale del Milan, la cui “breaking news” recita: “Ad Atene i rossoneri superano il Liverpool per 2-0”.

Altra perla, i voti all’arbitro Fandel da parte dei 3 maggiori quotidiani sportivi italiani. Il tedesco non ha visto (o non ha voluto vedere, data la posizione in cui si trovava) la spinta di mano-braccio di Inzaghi, falsando così il corso di una finale europea dall’enorme posta in gioco e fischiandone in anticipo il termine. Che dire di assegnargli un bel 2? Macché: è 7 all’unanimità . “Stadio” aggiunge: “Considera di spalla il tocco di Inzaghi e al Milan va bene così”. Complimenti vivissimi. (…)

Nell’immediato dopopartita, mentre nelle strade e nelle piazze di Milano il popolo milanista festeggia trionfalmente la coppa lasciandosi alle spalle 20 tonnellate di rifiuti, danni all’arredo urbano per 12.000 € (fonte: “Il Giornale”) e semidistruggendo la mostra internazionale itinerante della “Cow Parade” , ecco giocatori e dirigenti rossoneri presentarsi ai mass media “tronfi e pettoruti”. Kaladze: “Siamo la squadra più forte del mondo”. Kakà: “Grande Milan”. Gattuso: “Ho sempre sentito dire, da quando gioco al calcio, che la Coppa dei Campioni, la Champions League, è più importante e vale 3 o 4 campionati”. Berlusconi: “Abbiamo messo in atto lo slogan che io avevo forgiato per il Milan, ‘più forti dell’invidia, più forti dell’ingiustizia, più forti della sfortuna’”. Definisce il percorso del Milan “costellato di bel giuoco” e i suoi uomini “padroni del campo, padroni del giuoco”. Cannavò ha proprio ragione: l’amore è cieco.

Galliani confessa di essere corso negli spogliatoi al goal di Kuyt (ma a scongiurare il possibile ripetersi della beffa di Istanbul ci ha pensato Fandel, fischiando in anticipo). Ai microfoni Rai, l’amministratore delegato del Milan parla di “anno migliore di questa società e di questo tecnico”. Galliani sulle reti lombarde in relazione all’Inter: “Abbiamo fatto meglio di loro come ci capita da 5 anni; facciamo sempre meglio in Champions League. Qualche significato l’avrà questa cosa qui…” Alla domanda da studio su un’eventuale sfilata del Milan sul pullman per le vie di Milano risponde: “ Noi vinciamo spesso, non abbiamo bisogno dei bus”. Il bus con i rossoneri e la coppa, per la cronaca, percorrerà il capoluogo lombardo la sera dopo, da via Mario Pagano a Piazza del Duomo, con Ambrosini a esibire uno striscione osceno all’indirizzo degli interisti.

Monica Morandi

Milan vincente anche nel marketing


di DOMENICO FABBRICINI

Si è concluso martedì 5 giugno, il Milan Workshop 2007, il tradizionale incontro che ogni anno la società rossonera tiene con giornalisti e sponsor per illustrare i risultati sportivi ed economici ottenuti nella stagione appena conclusa, e che ancora una volta è stato ospitato, dal 3 al 5 giugno, presso il Tanka Village di Villasimius (Ca). Appuntamento dai toni trionfalistici quello di quest’anno, con il Milan che si presenta da fresca vincitrice della Champions League (e con la coppa materialmente presente) e con la testa già alla Supercoppa Europea di fine agosto e al Mondiale del Club di fine dicembre. “Ora il nostro obiettivo primario è diventare anche campioni del mondo a livello di club - ha dichiarato in apertura di convegno Adriano Galliani, vicepresidente vicario e amministratore delegato A.C. Milan –. Il Milan rappresenta un brand di grande fascino internazionale, in grado di appassionare e catalizzare l’attenzione di milioni di persone dall’Europa agli Stati Uniti, dall’America Latina all’Asia. Un ringraziamento particolare va ai nostri sponsor, che in un momento così difficile come quello vissuto la scorsa estate, quando addirittura volevano mandarci in B, ci sono rimasti vicino confermando la loro partnership e inviandoci segnali di solidarietà e grande amicizia. E la loro fedeltà è stata ripagata dalla grande visibilità di cui i loro marchi, assieme al nostro, hanno goduto in tutto il mondo. Solo la finale di Champions League è stata vista in 190 Paesi, mentre nel corso di tutto l’anno abbiamo registrato un’audience televisiva complessiva di circa 9 miliardi di telespettatori. Inoltre, il 30 luglio a San Siro ci sarà “Uniti per la maglia”, un’iniziativa organizzata in collaborazione con Sky, adidas e Bwin che permetterà ai tifosi di far parte del prossimo leit motiv del Milan: a San Siro verrà scattata una fotografia sui gradini del settore arancio con calciatori e tifosi assieme (il costo del biglietto sarà simbolico e devoluto alla Fondazione Milan, ndr), l’immagine costituirà il visual della stagione 2007/08”. Numeri importanti, quindi, che sottolineano la scelta vincente di chi ha deciso di associare il proprio nome a quella del club rossonero, e che vengono rimarcati uteriormente dal direttore vendite Mauro Tavola: “In questa stagione abbiamo fornito ai nostri sponsor, partner e fornitori quasi 1000 ore di visibilità televisiva statica, pari ad un valore economico di circa 125 milioni di euro. Per il nuovo anno confermeremo la scelta di avere 50 sponsor, di cui 18 istituzionali e 32 fornitori ufficiali. Presto ci sarà la notifica anche del nuovo gold sponsor, il cui nome per ora è ancora segreto. Abbiamo poi già rinnovato il contratto, fino al 2010, con Tim e Publitalia. Una delle novità della stagione 2007/08 saranno i flash led sponsor: il logo o il pay off degli investitori saranno esposti sui tabelloni luminosi a bordo campo, per la durata di 1 secondo, più di 300 volte in ogni partita. Dai test abbiamo calcolato che questo sistema accresce la visibilità del marchio in tv del 70%”. Laura Masi, direttore marketing A.C. Milan, ha aggiunto: “Secondo le rilevazioni Vidierre, in Italia nella stagione 2006/07 abbiamo avuto una copertura televisiva di 1204 ore, con un incremento di visibilità del 20,30% rispetto al 2005/07. Nel mondo la copertura è stata di 1804 ore, +199,43% rispetto alla stagione precedente. Prospettive interessanti arrivano anche dall’indagine Krc Research: lo studio, commissionato da MasterCard, evidenzia come per i top club sia fondamentale, in termini di comunicazione, il cosiddetto fair value, ovvero il valore implicito della marca che beneficia direttamente delle vittorie sportive. La vittoria di Atene permetterà quindi al Milan di scalare la vetta della classifica dei World’s Top Ten Clubs sportivi stilata dalla rivista economica Forbes. Quello che ci differenzia è la volontà di stabilire un dialogo diretto con i tifosi: festeggiamo i 39 anni del magazine Forza Milan, Milan Channel conta ormai 55 mila abbonati e il sito acmilan.com, nato nel 1996, è ad oggi il punto di ritrovo per tutti i tifosi che vogliono inviarci le loro foto, dialogare con altri utenti, interagire col Milan e sapere tutto della loro squadra del cuore. In questi giorni, infine, partirà la nuova campagna abbonamenti dal pay off “Al settimo cielo” (in riferimento alla settiman Champions League vinta, ndr): i prezzi saranno invariati rispetto allo scorso anno e ci saranno 1000 tessere omaggio a disposizione degli Under 14”. Infine sono stati resi noti gli straordinari numeri del sito www.acmilan.com, che nei soli giorni del 23 e 24 maggio, in concomitanza con la finale di Atene, ha registrato rispettivamente 3.890.000 e 8.218.000 di pagine viste e 5700 nuovi iscritti, e i risultati raggiunti dall’associazione benefica Fondazione Milan, che dalla sua fondazione nel 2003 ha già raccolto più di 2 milioni di euro e realizzato 36 progetti.

sabato 2 giugno 2007

Quando la FIFA si occupa di altimetria


di FIORENZO BAINI

Tra le notizie più comiche degli ultimi tempi c’è, indubbiamente, quella che vieta di giocare in altitudine le partite di calcio. E’ chiaro, viste le minacce di ritirare dalle competizioni le nazionali interessate cioè Bolivia, Colombia, Ecuador e Perù, che alla fine tutto si risolverà nella classica bolla di sapone. Si sono addotte motivazioni di tipo medico ma la cosa può solo far ridere pensando che la stessa FIFA non ebbe remore per i soliti, maledetti, motivi televisivi, a far disputare in condizioni allucinanti i mondiali 94. Per chi avesse la memoria corta ricordo un Olanda Marocco disputato in Florida con 47 gradi.

Non voglio immaginare cosa ci stia dietro, forse tutto, forse è stato solo un attacco di stupidità però, nel frattempo, io penso che sia assolutamente logico che il più debole abbia il diritto di sfruttare tutti gli escamotages leciti per provare a prevalere su chi è più forte. Il calcio, per sua natura, non poteva proliferare e creare grandi squadre se non in zone temperate; la sua culla naturale non poteva dunque che essere l’Europa e nel Sudamerica all’interno di quelle aree che godessero di un clima accettabile; nel Brasile, per esempio, non poteva certo esplodere nella capitale dell’Amazzonia ma a Rio mentre Argentina e Uruguay, dal clima simile a quello europeo, erano sicuramente avvantaggiate per farlo partire rispetto, per esempio, al clima umido subtropicale del Venezuela.

Tuttavia, alla fine, il calcio è diventato fenomeno planetario anche nelle aree dove, climaticamente, le condizioni non erano ottimali ma se, a tutto ciò, aggiungiamo che esistono anche le differenze morfologiche tra le varie razze ne consegue che non potremo pretendere dai calciatori andini la fisicità degli africani o dei nordeuropei o il ritmo forsennato che possono tenere i coreani. L’unica conclusione possibile è che, ad armi pari, non ci sarà mai concorrenza e allora, ripeto, occorre aiutarsi se la natura ne offre la possibilità.

Come certe volte si bagna il campo per mettere in difficoltà l’avversario così è successo un’infinità di volte che il fattore climatico è stato usato per portare la sorte dalla propria parte e nessuno ha avuto nulla da dire. Per fare un esempio recente: l’Italia ha disputato la partita di spareggio per andare ai mondiali 98 a Mosca sotto una tempesta di neve, evento tutt’altro che improbabile alla fine di ottobre. Tirando all’estremo la logica della FIFA, visto che quelle condizioni favorivano palesemente i russi quella partita o non si giocava oppure, gentilmente, i nostri avversari avrebbero dovuto farci giocare a Rostov, sul mar Nero, in un clima simile a quello della Liguria.

Per fare un esempio lontano raccontatomi da mio papà buonanima: l’Italia, per andare ai mondiali del 1954, dovette vedersela con l’Egitto in una partita decisiva. Ora non oso pensare che razza di nazionale fosse quella egiziana di cinquantatre anni fa ma, al posto di giocare, che so, a Palermo per essere più sicuri di vincere, li facemmo arrivare a giocare a Milano il 24 gennaio con una temperatura polare. I poveri egiziani persero cinque a uno e giocarono il secondo tempo in uno stato di progressivo assideramento, tant’è che incassarono quattro dei cinque gol.

In conclusione poi, siamo proprio certi che, vietando le partite in altitudine, non si cada dalla padella nella brace? I dirigenti calcistici spesso brillano per ignoranza perché non si può ignorare, per esempio, che se l’Ecuador volesse giocare a Guayaquil o la Colombia a Barranquilla, a livello del mare, clima tropicale con umidità pazzesca, o il Perù a Tacna, ai bordi del deserto di Atacama o la Bolivia, nella propria regione amazzonica, la sofferenza dei calciatori ospiti sarebbe forse superiore perché, bene o male, all’altura ci si può abituare pianificando per tempo le cose ma al clima equatoriale nel quale non è, comunque, una cosa normale correre novanta minuti prendendo a calci un pallone, l’abitudine non si farà mai.

IN ESCLUSIVA PER "IL RESTO DEL PALLONE"

venerdì 1 giugno 2007

Lippi sostiene Telethon al timone dell’Azimut 86S


di DOMENICO FABBRICINI

Marcello Lippi, ct della nazionale di calcio campione del mondo ai Mondiali in Germania 2006, in qualità di testimonial Telethon e viareggino d’eccezione, guiderà l’Azimut 86S che partecipa, come barca Telethon, alla quarta edizione del raid motonautico “Viareggio–MonteCarlo-Viareggio”. Realizzato dal Comitato organizzatore di “Viareggio Mare” di cui fa parte la Viareggio Porto SpA, l’evento sportivo, punta di diamante dell’intera manifestazione, prenderà il via nella mattina di sabato 2 giugno per concludersi nel primo pomeriggio di domenica 3. Il modello di imbarcazione si presenta in anteprima assoluta alla “Viareggio-MonteCarlo-Viareggio” con un nuovo layout degli interni che interessa tutte le aree abitative: dal salone alla cucina; dalle cabine degli ospiti a quella dell’armatore e dell’equipaggio. Il tutto teso a conferire ulteriore prestigio e personalità allo yacht. «La nostra azienda – spiega l’ing. Federico Martini, Amministratore Delegato di Azimut Yachts - ha deciso di sostenere Telethon contribuendo al progetto di ricerca per la cura della talassemia, condotto da Giuliana Ferrari e offrendo uno dei suoi yacht per la Viareggio Montecarlo Viareggio. Abbiamo aderito con entusiasmo all’iniziativa e siamo orgogliosi di collaborare con la Fondazione in questo importante progetto».

giovedì 31 maggio 2007

Cambio al vertice, il saluto di Fabbricini

di DOMENICO FABBRICINI

Dopo il passaggio di consegne al timone di Ilrestodelpallone.com, non potevo esimermi dall’esprimere il mio parere dalle colonne di questo sito che, ben presto, sarà molto diverso da come lo vedete. Il blog è, infatti, solo un passaggio temporaneo dove cominciare a sperimentare quello che realmente faremo tra qualche tempo. Innanzitutto ringrazio Carlo Tecce per quanto fatto finora, Il Resto del Pallone è e resta una sua creatura, io mi limiterò a perseguire quanto di buono fatto da lui e dai suoi collaboratori finora. La mia linea editoriale non sarà tanto diversa da quella di Carlo, lui mi definisce “per palati fini e rozzi”, e più o meno è così, nel senso che cercherò di accontentare un po’ tutti, come ho sempre fatto: i nostri collaboratori e la loro voglia di “graffiare”, e il pubblico di lettori, cercando, ove possibile, di non offendere la sensibilità di nessuno. La scelta e la raccolta dei contributi editoriali continuerà ad essere seguita, come finora, da Marco Giannatiempo.
Carlo ha parlato di inutile direzione, non è assolutamente così. Se esiste un luogo online dove poter fare vero giornalismo senza servilismi e consigli dall’alto, il merito è tutto suo; e sento già tutto il peso dell’eredità che mi ha lasciato. Fosse per me Carlo sarebbe stato un ottimo direttore anche per il nuovo corso de Il Resto del Pallone, prendo comunque atto con orgoglio della fiducia accordatami dai colleghi con la speranza di creare un buon prodotto, multimediale e interattativo, in linea con i nuovi dettami del Web 2.0. Non voglio anticipare altro per non svelare troppo prima del tempo, ma il consiglio è sempre lo stesso fin dal primo giorno in cui è nato Il Resto del Pallone: seguiteci.