martedì 24 luglio 2007

La fuga di bomber e il fascino dello straniero


di DOMENICO FABBRICINI

Scappano i bomber dall'Italia. Il Paese campione del Mondo in carica, il Paese che, si dice, esprime il più bel calcio del mondo e che vorrebbe ingaggiare i migliori calciatori del globo, vede fuggire i suoi migliori cannonieri, attratti probabilmente (anzi, quasi certamente) dalle sirene milionarie di nazioni più attrattive, ma neanche tanto se si considera che Cristiano Lucarelli, 20 gol quest'anno con il Livorno, è andato a giocare in Ucraina (si badi, non in Spagna o in Inghiterra, ma in Ucraina), nello Shaktar Donetsk. Certo, gli 8 milioni di euro offerti per un attaccante ormai 32enne facevano gola al presidente Spinelli.

Così come facevano gola i 3 milioni a stagione offerti all'ex capitano amaranto, che l'anno scorso ha già rifiutato un ingaggio da un milione a stagione per restare a Livorno. Mercenario è stato chiamato dal più gentile dei suoi tifosi dopo la fuga in Ucraina, ma forse è solo l'emblema di un fenomeno sul quale bisognerebbe riflettere.
Lucarelli, infatti, non è l'unico bomber a lasciare l'Italia, se si considera l'approdo di Luca Toni (16 gol a Firenze) al Bayer Monaco, di Giuseppe Rossi (9 gol in un girone) al Manchester United (anche se potrebbe tornare in Italia) e di Rolando Bianchi (18 reti con la Reggina) al Manchester City. Se poi consideriamo la fuga di De Sanctis, portiere che ha rescisso il contratto con l'Udinese per scappare in Spagna al Siviglia, viene da chiedersi: cosa sta succedendo all'Italia? Da un alto il Milan cerca di convincere i vari Eto'o, Ronaldinho, Drogba a vestire la casacca rossonera, dall'altra basta voltare le spalle per vedere quelli che in Italia già c'erano scappare via. Cosa sta succedendo? E' vero che il campionato italiano è sempre più "povero" come si sente dire in giro, ma se il Milan (tanto per fare un esempio) stanzia 50 milioni per Eto'o, perché non spenderne meno della metà per un Bianchi o un Rossi che potrebbero rappresentare, molto verosimilmente, il futuro della Nazionale Italiana? Forse perché lo straniero va di moda, il tifoso vuol vedere nella sua squadra il campione forestiero che tira fuori dal cilindro numeri che gli autoctoni non sono in grado di regalargli, fa "figo" vedere nella rosa della propria squadra un bel nome brasiliano. Peccato che, a volte, la scatola chiusa che nasconde un calciatore che non ha mai calcato il manto verde italiano può tramutarsi in un vero e proprio "pacco" (vedi Ricardo Oliveira). Magari (magari!!!) il motivo è invece opposto, è il calcio italiano che va di moda all'estero e tutti vogliono assicurarsi il campione dal Belpaese. Ma se anche fosse così, resta l'interrogativo: perché questa fuga di bomber, che ricorda la ben più famosa fuga di cervelli?
In pecunia veritas.

mercoledì 18 luglio 2007

Caro Chivu, in amore vince chi fugge

di FABIO COSTANTINO

Ogni estate calcistica che si rispetti ha la sua telenovela ufficiale. In attesa che il Milan si renda conto del suo mercato imbarazzante, è quello legato a Chivu il caso più corposo dell’ultimo mese. Tanti gli attori protagonisti di questa commedia dell’assurdo: Rosella Sensi, i Becali Bros, Massimo Moratti, Joan Laporta e Ramon Calderon. Alcuni hanno svolto un ruolo da comparsa, altri sono tutt’ora sotto i riflettori, in attesa che la pellicola arrivi a una conclusione. Per molti questo è già accaduto, con il classico “tanto rumore per nulla” che costringe il difensore romeno a rimanere nella capitale fino agli ultimi respiri del suo contratto. Ma in realtà la never ending story all’italiana è ancora in pieno svolgimento, con gente che non si parla e altri che dissimulano interesse o menefreghismo ogni volta che cambia il vento. Rapido quadro della situazione. Tutto inizia prima dell’apertura delle buste per definire le comproprietà. Tra i calciatori in ballo, quel David Pizarro “ripudiato” da Mancini e amato come un figlio da Spalletti. Perché mai arrivare a uno scontro frontale tra Roma e Inter, quando ci si potrebbe accordare in altro modo? Magari lasciando il cileno a Trigoria, in cambio di una cifra modesta equiparata in 6 milioni di euro. Ma Moratti, pur avendo un cuore grande così, non è tipo da fare regali alle altre società (Milan a parte...), e probabilmente nella fattispecie si è tutelato garantendosi una prelazione sull’acquisto di Chivu, difensore eclettico che troneggia nei sogni del Mancio. Tutto semplice, no? Lui se ne vuole andare da Roma a un anno dalla scadenza del contratto, l’Inter lo accoglierebbe a braccia aperte, senza tuttavia spendere cifre da capogiro. E la società capitolina che guadagna una buona cifra dopo essersi assicurata l’imprescindibile Pizarro. In tutto questo, ecco entrare in punta di piedi i fratelli Becali, procuratori di mezza Romania e, naturalmente, del capitano della nazionale. Per loro l’accordo con Moratti è stato semplice: 5 milioni a Chivu e non se ne parli più. Una stretta di mano talmente forte da convincere i due agenti a rifiutare ogni altra proposta d’acquisto. Ma cosa c’entra questo? Se ormai è tutto definito, chi altri può interferire nel matrimonio tra Massimo (Moratti) e Cristian (Chivu), con Rosella (Sensi) testimone? Ma il gatto e la volpe spagnoli, i Laporta e Calderon che cercano un difensore di nome per Barcellona e Real Madrid. Via dunque alla fatidica asta, con la Sensi osservatrice golosa e Pradè braccio armato investito di ogni trattativa: 15 milioni dalla Catalogna, 18 dalla Castiglia. E l’Inter? Sorpresa da questo tourbillon di monete, fa un passo indietro per non partecipare ad alcuna asta. Tanto sa di avere in mano il jolly determinante: il sì di Chivu, o meglio dei Becali, che mai rinuncerebbero alla commissione su quei bellissimi 5 milioni annui. Giorno dopo giorno, agli ok della Roma seguono i rifiuti dell’entourage del calciatore, fino ad arrivare all’abbandono della pista romena da parte spagnola, virata verso altri lidi (Milito e Pepe). Stop, dunque, fine dell’asta. Rosella è furibonda, non vuole accettare l’offerta dell’Inter perché inferiore alle altre. Ma l’offerta dell’Inter, a un certo punto, sparisce in un puff, un po’ per strategia, un po’ per irritazione nei confronti di chi ha attirato altre api a un miele già dato via. Situazione? Oggi Chivu è in ritiro con la Roma, che non ne vuole sapere di trattare con Moratti, il quale non ha voglia di parlare con la capitale. I Becali, accusati di aver impedito la cessione del giocatore in Spagna, devono acconsentire all’obbligo di rispettare il contratto fino all’ultimo giorno, esponendo così il loro protetto a una contestazione pubblica. Accettata, tra l’altro, di buon grado dal nostro protagonista, prima oggetto del desiderio di mezza Europa e oggi separato in casa giallorossa. Chivu rispetterà il contratto e se ne andrà il 30 giugno dove gli offriranno di più (sarà sempre l’Inter?), ma in questi 12 mesi dovrà sorbirsi il malcontento della tifoseria, poco propensa a perdonare chi aveva già pronte le valigie verso Milano. Questo il quadro, ma finirà davvero così? Nessuna possibilità di dialogo tra Sensi e Moratti? Che fine ha fatto quell’accordo dopo la cessione di Pizarro? Forse la Roma ha giocato troppo con il fuoco cercando di guadagnare il più possibile. Un tempo il patron nerazzurro, per spirito di competizione, avrebbe accolto la sfida e l’avrebbe persino vinta. Ma quei tempi sono finiti. Oggi il buon Moratti, con Moggi fuori gioco, ha scoperto che il miglior modo per portarsi a casa i giocatori è parlargli direttamente, costringendo poi la loro società ad accettarne la volontà (vedi Suazo). È proprio vero che il mercato lo fanno i calciatori, ma una piccola quantità di etica sarebbe ben accetta. Adesso Moratti fa l’indifferente, sostiene che Chivu non gli serve, e lo ignora. Ma forse si tratta semplicemente di un’altra tattica. Dopotutto, in amore vince chi fugge....

martedì 10 luglio 2007


CAMPIONE PRECOCE

di FIORENZO BAINI

Sta svolgendosi il mondiale under 20 in Canada e naturalmente fior di osservatori, allenatori, procuratori nonché avvoltoi vari stanno sugli spalti a vedere le proposte future del convento calcistico e come al solito è stato identificato il fenomeno prossimo venturo, naturalmente brasiliano, ovvero Pato.
Siccome a ogni evento del genere ce n’è sempre uno di tali messia conviene chiedersi se le promesse sono state rispettate e in base alla risposta sapremo la validità effettiva di queste manifestazioni.
Da un punto di vista strettamente calcistico è ovvio che chi ha un qualcosa in più sia destinato a brillare in mezzo ai coetanei ma questa ovvietà naturalmente non serve a nutrire il fenomeno calcio inteso come puro spettacolo. No, occorre che il nuovo fenomeno sia considerato tale prescindendo dal contesto e venga considerato un “craque” assoluto perché solo così sono giustificabili i clamorosi esborsi che le squadre più ricche sono disposte a spendere. Occorre fare immaginare che il ragazzino possa inserirsi in una squadra nuova e mettere in riga tutti dall’alto della sua classe.
I nomi che mi vengono in mente nell’immediato passato sono Kaka, Messi e Robinho; dei tre solo il primo ha dimostrato di essere realmente un fuoriclasse perché si è inserito in un complesso preesistente e l’ha fatto vincere. Messi ha molto per essere come Kaka ma, fino ad oggi, non ha dimostrato di poter essere colui che trasforma la squadra rendendola vincente infatti io non credo che fosse stato solo tafazzismo quello di Pekerman ai mondiali di levarlo nella partita con la Germania come, d’altronde, Messi non ha certo fatto vincere il Barcellona. Su Robinho non è neanche il caso di parlare perché il Real ha vinto indipendentemente da lui.
Di conseguenza questi mondiali sono al 70% inattendibili e l’impressione è che esistano come vetrina per far spendere i club ricchi e di conseguenza per immettere in circolo di enormi quantità di denaro a favore di chi è più svantaggiato consentendo così la sopravvivenza del baraccone. Credo perciò che ogni tipo di manifestazione mondiale a livello giovanile potremmo giustificarla con finalità sociali e poco più.
Anche perché, scendendo più nel dettaglio tecnico, è bene non dimenticare che ai mondiali veri la tendenza delle squadre è quella di avere un’età media più elevata rispetto a vent’anni fa proprio nelle squadre candidate al titolo. Si noterà che, a parte le nazionali non titolate, le altre tendono a far largo ai giovani quando sono proprio deluse dalla generazione dei venticinque/trent’anni infatti la Germania, dall’età media abbastanza bassa, ha dovuto fare di necessità virtù visto il vuoto che ha seguito la generazione di Matthaus, dei Klinsmann e pure dei Kohler; l’Olanda, con risultati negativi, ha provato a svecchiare a sua volta ma, a parte gli errori di Van Basten, l’impressione è che, fortissimi a livello giovanile, siano poi veramente pochi gli olandesi in grado di creare un team vincente.
Allora, tornando al punto iniziale, un fenomeno realmente tale credo che non abbia bisogno di giocare ai mondiali giovanili e quando accade, nella gran parte dei casi lo si fa passare per tale, ma non lo è. Un fenomeno va direttamente nella nazionale maggiore, diventa titolare e da lì non si schioda più; per quanto inarrivabili credo che gli esempi di Pelè e Maradona, titolarissimi a diciannove anni, siano ancora i più validi. Nel piccolo orticello nostro e senza parlare di fenomeni vale il caso di Bergomi, mondiale a diciannove anni non ancora compiuti ma qui forse si apre un’altra parentesi; con la necessità solo nostra di far vincere sempre e comunque l’Under 21 è diventato presso che impossibile un esordio in nazionale a venti anni. Casi Bergomi o anche Cabrini temo che non se ne vedranno più.
di ANTONIO GURRADO

Per come siamo noi Italiani, più che probabile che ce ne dimentichiamo. Lunedì 9 luglio cade il primo, delirante compleanno del trionfo a Germania 2006 e va bene, questo se lo ricorda chiunque, secondo me perfino Guido Rossi. Ma per assurdo, controfattualmente, se pure l’anno scorso non avessimo vinto il Mondiale avremmo avuto qualcosa da festeggiare in questo luglio insolitamente caldo (nota extra-calcistica: quando i telegiornali si svuotano, con l’estate, ogni luglio è inusitatamente caldo, così come sotto Natale ogni inverno è inusitatamente freddo e in primavera ogni scudetto dell’Inter è inusitatamente meritato). Mercoledì 11 luglio, alzi la mano chi ha indovinato, è il venticinquesimo anniversario della vittoria di Spagna ’82.
All’epoca ero già nato ma, avendo da poco compiuto un anno e mezzo, preferivo interessarmi ad argomenti più futili; così che solo per interposta videocassetta ho conosciuto il traballante girone eliminatorio di Vigo, il seppellimento della prosopopea brasiliana nel secondo turno e l’inutile goal di Breitner in finale. Non rimpiango di essermelo perso, perché il 2006 e il 1982 occupano due versanti distinti del mio cuore calcistico: il primo saldamente ancorato agli avvenimenti spiccioli che scandivano l’attesa delle partite, e come tale momento leggendario che ha attraversato una quotidianità che lo ha reso credibile, impossibile a svanire col risveglio mattutino; il secondo, al contrario, necessariamente confinato nella testimonianza altrui o nel giornalismo d’epoca, in un flusso storico trasognato e talmente nebuloso da camuffarsi a mo’ di leggenda, benché confermato dalla reiterata esposizione (per interviste, celebrazioni varie, partitelle amarcord) dell’invecchiamento dei protagonisti d’allora.
Perché il calcio, non lo capiremo mai abbastanza, ci piace perché insegna che invecchiamo tutti e che al contempo possiamo sopravvivere al nostro invecchiamento, cristallizzati nel momento in cui, non importa se uno o venticinque anni fa, due mani italiane hanno alzato al cielo una coppa completamente uguale e dorata. Se fossi un sociologo, dedicherei questa festevole settimana di luglio allo studio comparativo delle due rose azzurre, della ristretta scelta di una ventina di compatrioti che, per un mese, non ha dovuto far altro che tirare calci in nome di una Nazione intera. Non per niente l’Italia, come volevasi dimostrare, è a forma di stivale, e sotto la Calabria sembrano esserci i tacchetti.
Non potendo giocare a trovare le differenze, come nella Settimana Enigmistica, fra ventidue coppie di Campioni del Mondo, mi limiterei alla coppia di portieri che in due secoli diversi, come la Settimana Enigmistica, può vantare innumerevoli tentativi di imitazione. Si può riuscire a rintracciare i cambiamenti di cinque lustri sui lineamenti paralleli di Dino Zoff, prima, e di Gigi Buffon, dopo? In comune hanno più cose di quante si possa intuire: sono entrambi sovrumani, come appare lampante dalla visione di qualsiasi filmato d’epoca; hanno un nome diminutivo (curioso per chi negli occhi degli attaccanti è grande quasi quanto la porta che protegge) e un cognome tronco come il rumore di una parata; giocano nella Juventus e vincono campionati a ripetizione. Cosa li distingue? Tante, infinite cose; ma nella nostra memoria, se ci pensiamo un attimo, sono percepiti come speculari. A Zoff associamo, brutalmente, la vecchiaia, col bagaglio di esperienza e silenziosa saggezza che si porta; le rughe fissate nell’espressione perpetua con la quale ha attraversato il 1982, mutandola in un sollievo tanto raro da dover essere immortalato da Guttuso. A Buffon associamo, al contrario, la gioventù, col suo esordio precocissimo in Serie A, i capelli bagnati, l’occhiolino compulsivo, la battuta spontanea (dopo la miracolosa parata su Zidane, un anno fa, gli si avvicina e gli dice: “Scusa”), la fidanzata bella e il suo continuare ad essere sempre, quando leggiamo la data di nascita sugli almanacchi o sugli album di figurine, sorprendentemente più giovane di quanto ne dica il palmarès (ha due anni più di me, che a stento riesco a tenere un pallone fra le mani).
Tanto per gradire, ci fermiamo ai numeri 1. Però pensate quante informazioni su venticinque anni d’Italia potrebbe trarre l’ipotetico sociologo dalla comparazione dei numeri 3 diversamente decisivi (in Spagna Bergomi, in Germania Grosso), dei ghignanti 5 (prima Collovati, poi Cannavaro), dei pugnaci 8 (nel 1982 Vierchowood, nel 2006 Gattuso), dei fiorentini 9 (pure con la rima: da Antognoni a Toni), dei versatili 15 (Tardelli, Iaquinta), dei nobili 17 (Causio per eleganza, Barone per cognome), e così via: similarità, contrapposizioni e segni del destino si rincorrerebbero all’infinito. Io mi limito a farne notare uno soltanto: in Germania, col numero 7, giocava il capitano della squadra più tifata d’Italia, campione di buon viso (il suo) a cattivo gioco (della malasorte), sereno, corretto, vincente, fedele, determinante e compagnia lodando: le sue giocate e le sue interviste dovrebbero diventare materia obbligatoria in tutti gli oratori d’Italia, dove spero che stiano iniziando ad allenarsi i Campioni del Mondo del 2030. In Germania, Alessandro Del Piero indossava la maglia che fu di Scirea.

martedì 3 luglio 2007

Coco e i perché


di COSIMO ARGENTINA

La domanda di fondo è sempre la stessa: perché?
Perché giochi al calcio? Perché scrivi una poesia d’amore? Perché scolpisci sotto la pioggia?
Perché?
Qual è la molla che ti spinge a soffrire, sudare, sputare sangue cercando di farcela. Perché si lotta per un risultato o per fedeltà al delirio che ci si è scelti?
Perché si gioca al calcio?
Perché so fare solo quello. Perché nella vita sono un mediocre e invece in campo divento un eroe. Perché la forza che mi viene dal manto erboso mi rende pressoché invincibile. Perché non ne posso fare a meno. Perché da bambino giocavo e calciavo contro tutto e tutti.
Ma a questo punto stringiamo l’ottica e tiriamo fuori un’altra domanda che sorge altrettanto spontanea: perché Coco gioca al calcio?
Perché Francesco Coco ha deciso di fare il calciatore?
Non ci scandalizziamo, no, riguardo alle personalità che da sempre hanno attraversato il mondo del calcio. Erik Cantona in gessato e bombetta che sfascia il volto di un tifoso avversario; Paul Gazza Gascoigne che salta gli allenamenti per andare al pub con gli amici; Albertosi in ritardo al raduno per colpa dell’ultima corsa all’ippodromo…
Ma rispetto a loro una domanda almeno aveva una risposta certa: perché giocavano? Perché erano calciatori di razza, magari con temperamenti particolari, ma giocavano perché per loro quella era la vita.
E Coco?
E per Coco?
Di Bobo Vieri si può dire questo e quest’altro ma in campo c’ha il fuoco. Vuole la porta e la cerca quasi con disperazione e ora che la vede sempre di meno la sua faccia comincia a deformarsi nel ghigno di un frustrato aggrappato a una parete di cristallo.
Ma Coco?
Perché Francesco Coco ha deciso di fare il calciatore?
Cosa lo spinge a giocare?
Cosa desidera, in realtà, questo ragazzo? Perché gioca a pallone questo ragazzo siciliano nato calcisticamente nel milanese del nord, a Legnano, dove lo ricordano soprattutto per essere un bel figliolo che per essere stato considerato per un tot di anni l’erede di Paolo Maldini?
I calciatori di una volta giocavano, giocavano, giocavano e poi aprivano una pompa di benzina. Altri finivano dietro una scrivania nella sede della società a cui erano stati fedeli per un’intera carriera.
E Coco?
Perché gioca al calcio questo ragazzo che ha militato nel Barcellona (Pozzo di Gozzo? Macché… i blaugrana!!), nel Milan, nell’Inter, nel Livorno, nel Torino, nel Lanerossi Vicenza…
Perché?
Uno volta uno scrittore mio conoscente mi ha confessato che faceva il narratore per scoparsi le ragazze. E un editor una volta mi confidò che conosceva un direttore editoriale che non capiva nulla di letteratura ma che la posizione all’interno della casa editrice gli permetteva di adescare giovani maschi alla ricerca di una pubblicazione e portarseli a letto. E un cantante mi raccontò che il suo sogno era arrivare a cantare una canzone in diretta in tv. Poi poteva anche aprire una salumeria.
E Coco?
Qual è la sua passione nuda e cruda?